Se vogliamo deludere un amico (o un’amica) non abbiamo che da esprimere apertamente una critica nei confronti del suo modo di agire o di pensare.
A nostra volta, per restare delusi dal comportamento di un amico (o un’amica) è sufficiente che ci indirizzi una critica.
Su tali presupposti, un opinare privo di intenti ingiuriosi e malevoli, una banale considerazione su una vicenda personale possono compromettere un rapporto di amicizia di lunga data.
Per questo, nel dialogo ordinario tra amici, si pone il principio di cautela per evitare qualsivoglia commento-giudizio, tutti consapevoli che tale commento-giudizio, una volta espresso, “una volta uscito dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto”, scomodando la narrazione del profeta Isaia.
In quanto tale, nessun giudizio verrà compreso & giustificato dal potenziale beneficiario. Anzi, verrà interpretato come motivo di insanabile lacerazione, come irreparabile offesa, fino a togliere l’amicizia su Facebook.
In questo fuggi fuggi mentale e sulla scorta del significato dizionariale (cit. Treccani Web) di “giudizio: qualsiasi affermazione, verbale oppure scritta, che non sia una semplice constatazione di fatto, ma esprima un’opinione sulle qualità, il valore, il merito di persona o cosa”, esso andrebbe derubricato rispetto al significato di atto deprecabile, affinché una sana relazione di amicizia non resti impegolata per anni nella neutralità.
A ribadire l’argomento, il giudizio costituisce in sé, per comune pensiero, motivo per chiudere un’amicizia, laddove la percezione dell’intento offensivo prevale, a nient’altro conferendo la longevità del rapporto.
Resta il paradosso di percepire ingiuria in ogni pensiero giudicante,escludendo in assoluto la possibilità di pensarlo come contributo.
Derubricare il “giudizio” fino a decolonizzare la mente dalla salva di percezioni filo-persecutorie consente di slegare il dialogo dai vincoli soggettiviche ne condizionano la spontaneità e ne impediscono la profondità.
In conclusione, preso da apripista il brano “Nessuno mi può giudicare” di una Caterina Caselli del 1966, ogni attualizzato ribadimento va considerato ciarpame di cui la mente deve sbarazzarsi. Massimiliano Barbin Bertorelli