Il precetto del distacco dalle cose materiali, l’idea di conservare uno stato di impassibilità dinanzi ai coinvolgimenti affettivi, cui è usualmente implicato e associato il patimento, per la morale tradizionale resta un’idea di comportamento deprecabile, cronicamente egoistico.
A ribadire il concetto, la convenzionale categoria della sensibilità respinge con vigore il sopra richiamato precetto, associandogli l’inaccettabile colpa di una visione dell’esistenza gretta, asettica, anaffettiva.
Impensabile è guadagnare consenso quando si dichiara l’ intenzione, anche solo a livello verbale, di smarcarsi da certo capestro affettivo, che del patimento e del sacrificio costituisce premessa.
Non a caso, il vocabolario personale non prevede l’utilizzo del termine sacrificio/patimento ogniqualvolta riguarda un adempimento contingente in cui insiste un coinvolgimento emotivo.
Tuttavia, visto che è possibile credere nel progresso senza credere che sia già in opera, é anche possibile credere nella possibilità di distaccarsi dal patimento senza volerne dare fattiva applicazione.
Sia come sia, la giustificazione & l’accettazione del sacrificio-patimento consegue all’ intricato intreccio di senso del dovere e senso di colpa, malgrado a tratti la titanica motivazione individuale sconti l’inconfessabile desiderio di “togliere la scala dopo esserci saliti”, per usare una efficace immagine di L. Wittgenstein.
Senza ulteriori preconcetti, il distacco dalle cose materiali trova anche un supporto concettuale in Raimon Panikkar e in Meister Eckhart, i quali lo considerano tutt’altro che insolente, al punto di assegnargli il paradossale effetto di condurre alla vicinanza, fors’anche all’ eguaglianza con la condizione divina.
In soldoni, la decisione di liberarsi dal giogo del coinvolgimento e del conseguente sacrificio/patimento annesso alla vita affettiva umana, resta un’azione indegna per l’opinione comune.
Sintetizzando a colpi d’accetta, pre-supponendo che “una vita coinvolta passionalmente ed emozionalmente non può anche pretendersi felice”, per citare R. Musil, resta l’ analogia per cui, malgrado il retaggio vi protenda come imperativo etico e ne associ soddisfazione di sé, una vita di sacrificio/patimento non può anche pretendersi felice.
In base all’irriverente presupposto, pare logico concludere con Petrolini: “la vita è una tragedia da ridere”. Massimiliano Barbin Bertorelli