In questi tempi di isolamento da covid, ci accorgiamo di quanto sia un privilegio lavorare, di quanto amiamo lavorare.
E ci torna alla mente che il fine settimana acquista valore in quanto esiste il principio della settimana, quel dannato lunedì, che abbiamo cominciato a rivalutare, perché senza i giorni feriali perdono il loro senso anche i giorni festivi.
Stiamo capendo che vogliamo che siano aperti negozi, uffici fabbriche, certamente anche per gli introiti che ce ne derivano, ma anche perché sappiamo che, finché si riesce a lavorare, la disperazione può sfiorarci, ma non ci penetra davvero.
E constatiamo anche che il lavoro distrae, diventa un antidoto alle inevitabili prove, perdite affettive, dalle quali nessuno purtroppo viene esentato.
E ancora ci rendiamo conto, magari mentre lavoriamo in smart working nel silenzio della nostra casa, che il lavoro fatto consapevolmente è forse l’unica possibilità che abbiamo di lasciare una traccia del nostro passaggio nella vita, ed anche di migliorare quella degli altri.
La solitudine forzata, la distanza misurata col metro a braccio, che nessun social può davvero colmare, ci ha fatto provare, al di là della troppa retorica sugli abbracci, la nostalgia delle distanze a misura d’uomo, delle relazioni umane normali (anche se spesso abitudinarie o condite di formalismi).
Abbiamo riscoperto il valore delle “calorie vitali”, di una lunga conversazione al telefono (ben più “nutriente” di un frettoloso sms), di una corposa email.
Abbiamo ritrovato il gusto delle quattro ciarle in fila davanti al supermercato, dello scarico emotivo di parlar male della lentezza degli impiegati statali, mentre si attende il nostro turno alle poste con un occhio al dindalon del cartellone dei numeri.
Mentre la percezione comune è che il senso di solidarietà tenda ad aumentare, pare invece acuirsi il contrasto tra generazioni: chi lo trasmette a chi? La scienza non ha ancora una risposta. I giovani sono restii alle precauzioni, le osservano malamente con un senso di malcelata insofferenza.
I meno giovani (improvvisamente sono diventati “i vecchi”) sono comprensibilmente spaventati, quanto meno disorientati, tendono a chiudersi troppo, a dimenticare la salubrità di una passeggiata tra il verde. Vi è un rimedio? In attesa che dalla scienza arrivino certezze, che i vaccini facciano il loro corso, meglio attenersi a quanto prescritto, prudenza, distanziamento, mascherine: soprattutto non dimenticare il valore e il rispetto per ogni vita umana, indipendentemente dal tempo che prevedibilmente gli rimane. Elisa Prato