Germano Celant in un ricordo di Mario Vespasiani, direttamente dalla voce dell’artista un ritratto del celebre critico d’arte
A livello grafico il 2020 doveva essere l’anno perfetto, per via di quell’abbinamento cronologico che dona alla forma dei suoi numeri un calcolo facile e pulito, un alternarsi fluente, che serpeggia nel due e si placa nello zero, formando un uroboro immobile ma in eterno movimento, simbolo dell’energia universale che si consuma e rinnova continuamente nella natura ciclica delle cose. Quattro numeri che sovrapposti come amanti com-baciano e perfino spariscono l’uno nell’alto, forse portando con sé troppi amici e conoscenti
e con essi la libertà di far ciò che ci pare, di andare ovunque e con chi si vuole. Siamo entrati in tempo rallentato, ansioso e sospettoso, che magari condurrà a nuove riflessioni, forse più mature e indipendenti, rispetto alla bulimica voglia di popolarità e di quelle esperienze che sembravano non avere fine. Dal volere tutto al vedere tutto siamo adesso ognuno col nostro sguardo, che quando evade dal monitor, prosegue e insegue quel panorama che si scorge dalle proprie case, ultimi luoghi sicuri della terra, che resistono agli assalti di un nemico assurdo che predilige le persone fragili, provate e chi ha compiuto buona parte del suo cammino. Impossibile lavorare con questo clima, soprattutto quando si ha la possibilità di poterlo fare, perché avviene il paradosso in cui mente e corpo si oppongono, anche se si è in piena forma, perchè entrambi percepiscono che l’energia è cambiata e ora va indirizzata altrove, con precisione. Ma principalmente va armonizzata dal pensiero che si muove tra acque agitate e dal futuro gesto fisico da compire, per ritrovare la sua efficace naturalezza.
In una tale riappropriazione del rapporto uomo-natura su cui riflettevo con Mara nei giorni scorsi, netta come la doppia cifra del 2020 ci è apparsa la figura di Germano Celant, scomparso in queste ore in un altro numero pieno, 80 quello dei suoi anni, per via di quel virus che divide e disorienta.
Nel 1997 da giovanissimo studente dell’Istituto d’Arte andai a vedere la sua Biennale di Venezia e negli anni a venire acquistai per la mia biblioteca una serie di corposi cataloghi da lui curati. Critico d’arte, fondatore di quel movimento che evidenziava nell’
importanza del gesto artistico una chiara presa di posizione rispetto a un’arte patinata e consumista che stava prendendo piede alla fine degli anni ’60. Fece quello che oggi sembra impossibile, visto il solipsismo di critici e artisti, raccogliere intorno a sé un gruppo di artisti e tutti italiani: siamo nella sua Genova alla galleria La Bertesca e ci sono
Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini , uniti nell’abbraccio di un termine “Arte Povera” da lui teorizzato e di cui si sarebbe parlato a lungo. Attraverso l’utilizzo di materiali di fattura umile, organici o deperibili e privi di valore intrinseco, prese avvio una narrazione che si sarebbe collocata in opposizione alla mercificazione dell’artista e della sua opera. Il movimento rifiutando quell’arte luccicante, derivata dal boom economico e da una società sempre più organizzata e sviluppata tecnologicamente, puntava al recupero dell’azione e del fattore contingente, della concezione antropologica e di un’attitudine poetica, con un occhio al minimalismo e alla land art americana, ma con una spinta mediterranea. Nato nel 1940 Celant è diventato nel corso della sua lunga carriera di critico militante (guerrigliero anche nell’aspetto) uno dei maggiori curatori al mondo, lo ricordo a Venezia e nelle collaborazioni con la Fondazione Prada, nel suo tipico stile bianconero, lo si distingueva già da una certa distanza per via del contrasto della sua chioma d’argento (Argento anche il nome del figlio) in rapporto al completo scuro, spesso di pelle, arricchito da una serie di ornamenti che come amuleti indossava al polso e sulle dita, debitrici nel gioco del biliardo di quelle geometrie, che come lui ammetteva, lo avevano in qualche modo formato, nel saper dosare abilità e invenzione.
Durante questi anni abbiamo vissuto una trasformazione totale della società, la quale sembra oggi essere la paradossale produttrice dell’uomo e di conseguenza dell’arte, che subisce l’ordine delle cose. Ed anche se ribelle, provocatoria, dai contenuti espliciti deve comunque rimaner confinata all’interno del sistema, come una forma di intrattenimento, in cui perfino i più intransigenti si sono adattati alle regole del mercato. L’arte ha da tempo perso la qualità visionaria ed iniziatica, che io invece inseguo costantemente nel mio lavoro. Mi auguro che la scomparsa di Celant aiuti a rimettere al centro l’autenticità e le differenze di ciascuno di noi, ognuno col proprio aspetto e stile, con le singole interpretazioni del presente, le quali non devono essere popolari e condivise, né volte alla ricerca del consenso. Al concetto commerciale di “nuovo” dovremmo sostituire quello epico di “originale”, concedendo più tempo alla creazione e ancor più alla comprensione dell’opera, che non può più avere la stessa velocità di assimilazione di un’immagine pubblicitaria e neppure l’appeal appariscente per spiccare tra migliaia nello stand e nel brusio di una fiera. Così come le opere d’arte devono ritrovare i loro contenuti simbolici, così l’artista deve rintracciare se stesso e riconoscersi in modo netto: dote che apprezzai immediatamente in Germano Celant. Mi appariva misterioso e difficile, sfuggente e garbato, e dall’impostazione che prendevano le cose, individuavo subito che c’era lui e non un altro.