La vicenda ha luogo parte in Biscaglia, parte in Aragona al principio del XV secolo. Ferrando, capitano degli armigeri del Conte di Luna, racconta la storia di una zingara condannata al rogo anni prima per aver stregato il fratellino del Conte e di come, in seguito, il bimbo venne rapito da Azucena, figlia della zingara, per vendetta.
Il Conte, che ha promesso al padre di continuare a cercare il fratello, aspira a sposare Leonora, dama della corte Aragona, ma la fanciulla è innamorata del trovatore Manrico, conosciuto appena ad un torneo, giovane allevato da Azucena come figlio. La stessa gitana, dopo un duello tra i due pretendenti per Leonora, gli racconta come, per vendicare la madre, volle buttare nel rogo il figlio del Conte ma, per sbaglio, gettò il proprio figlio: desiderosa di vendetta fa promettere a Manrico di non lasciare vivo il Conte.
Ferrando cattura Azucena: Manrico lascia la cerimonia delle sue nozze per salvare la madre, ma viene catturato a sua volta.
Leonora, per salvare il suo amato, si offre al Conte.
Manrico sta per essere liberato, ma la giovane, per evitare un legame non voluto, si avvelena.
Il Conte, furioso, manda Manrico a morte: immediatamente dopo Azucena gli rivela che in realtà si trattava di quel suo fratello perduto da anni… Comunque la vendetta della zingara si è compiuta.
Fin dalle prime note, dalle prime battute, è evidente che siamo di fronte ad un dramma intricato, al limite del verosimile, dalle pennellate rapide e fosche, che coinvolge ambienti e psicologie.
Sembra che nessuno sia veramente al suo posto, almeno non secondo canoni tradizionali, o ritenuti tali dal pensar comune. Vediamo: cosa cerca una persona nella normalità in genere? Ad esempio, cerca un padre che, pur usando l’autorevolezza, accompagna la vita dei figli con consigli sensati verso l’ indipendenza e la realizzazione: e qui c’è un padre che incita il figlio alla vendetta, usandolo come arma per i propri scopi.
O ancora si cerca una madre che sia portatrice di equilibrio, di dolcezza, di sicurezza del nido, di consolazione: e al contrario qui abbiamo ancora una madre che usa un figlio, sebbene acquisito, come strumento della propria vendetta.
Genitori manipolatori, implacabili, dominati da forze oscure, che non esitano a mettere i fratelli gli uni contro gli altri fino all’omicidio, pur di perseguire il malsano trionfo di se stessi.
Qualcuno di questi “temperamenti” sopravvive ancora ai tempi nostri e riversa, in forma più o meno subdola, le proprie aspettative sui figli, pilotandoli tra rimbrotti, ricatti, sensi di colpa, soprattutto quando manca o è scarsa la complicità di coppia tra i genitori… e la carica affettiva ed emotiva prende altre strade.
Merita attenzione il temperamento di Leonora: cosa porta una fanciulla, sebbene con l’attenuante della giovinezza (e di un massiccio controllo familiare che non permette di sviluppare del tutto la capacità di valutazione), ad inseguire e mantenere con ostinazione e puntiglio l’amore per un uomo intravisto che l’affascina con il suo canto? Ad incollare il cuore su una persona della quale ricorda a mala pena la fisionomia?
Misteri della giovinezza: in fondo la scelta tra un pretendente nobile e poco accetto e un giovane sconosciuto implica lo stesso tipo di rischio.
Eppure pare che proprio il cuore abbia ragione, almeno secondo non disprezzabili correnti psicologiche: le scelte amorose della giovinezza, fatte talvolta attraverso le vie più improbabili, talvolta non benedette dai parenti, sono quelle più durevoli, nella realtà o nella mente.
Spesso l’amore-sogno è l’amore vero o lo sarebbe stato, e, se non chiappato a tempo debito, può persistere nella mente per una vita intera.
Leonora lotterà per l’amore da donna che si sente libera dalle imposizioni della casta, ma anche lei soccombe, come da tradizione ottocentesca romantica, a ciò che tocca nell’opera a donne meno forti, la morte.
La scena è impostata su colori scuri, il rosso cupo rammenta costantemente la linea di sangue e di vendetta in atto, sullo sfondo un cielo che annuncia la tempesta.
Un ambiente di forti tensioni, le armi luccicano perennemente in scena, i rumori di guerra sono sempre presenti, persino sullo sfondo del matrimonio di Leonora e Manrico. Atmosfera attenuata e quasi mistica nella splendida scena d’insieme dell’interno del convento delle suore cappellone, che si pone quasi come un momento di riposo dello spirito, anche per lo spettatore.
Fortemente d’impatto i manichini degli scheletri in gabbia che pendono dal soffitto: si respira il fascino che la morte ha sempre esercitato sul popolo spagnolo (che ancora si ritrova, a causa dell’antica dominazione straniera, nel nostro sud).
Gli interpreti maschili sono di tutto rispetto ed esaltano la prova dei personaggi femminili, vere star del dramma: applausi a scena aperta per una strepitosa Azucena (Violeta Urmana), vivo consenso per Leonora (Vittoria Yeo), che negli ultimi atti ci regala un saggio delle sue doti belcantistiche.
Da applauso, come sempre il maestro Battistoni e la sua orchestra.
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Il drammaturgo romantico che il nostro paese attese invano nella prosa apparve e trionfò in Giuseppe Verdi (1813-1901), con quella musica che il Nostro trasse a libretti spesso approssimativi ma capaci di fornirgli un pretesto per raccontare passioni anche al limite dell’umano.
Concluso il ciclo delle opere giovanili (dieci in dieci anni!) cominciato con il Nabucco del 1842, Verdi incanala il proprio stile verso produzioni più vicine al sentire intimista e perciò più sofferte nell’animo umano, anche se sempre e comunque di forte intensità drammatica: nasce pertanto la trilogia “Rigoletto “( 1851), “Il Trovatore” (1853), “La Traviata” (1853).
Tre storie di emarginati, il buffone, la zingara, la prostituta.
Il Trovatore fu rappresentato con successo per la prima volta al Teatro Apollo di Roma nel gennaio 1853 e rimane l’opera di Verdi più rappresentata nell’ottocento.
Il Trovatore resta al Teatro Carlo Felice fino al 1° dicembre 2019.
Elisa Prato