Dopo il sostegno a oltranza dato all’Ucraina, l’Occidente non ha potuto che schierarsi con Israele, vittima dei massacri e degli attacchi terroristici compiuti dai palestinesi di Hamas.
E si è già cominciato a parlare, in questi giorni, di un “attacco all’Occidente” stesso, di una guerra dichiarata a tutti i Paesi occidentali da parte di quello che non è ormai neppure più considerato come un “nemico”, ma come una banda di “animali umani”, come li ha definiti il ministro della Difesa israeliano: un gruppo di lupi feroci, ma anche di topi di fogna, che vanno uccisi senza alcuno scrupolo, in quanto la loro vita (non più nemmeno umana), non ha alcun diritto ad essere vissuta.
Però, quando nel nemico non riconosci più l’uomo qualsiasi atrocità diventa possibile.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: per quale Occidente stiamo combattendo, che “valori” occidentali stiamo difendendo?
Non quello che difende a ogni costo i “diritti umani” e la limitazione della guerra, se ora i nostri “nemici”, civili compresi, sono diventati delle semplici pulci da sterminare.
Non quello dei “valori democratici”, se pensiamo alla situazione politica all’ interno di Israele.
Strano che nessuno oggi ricordi come, non più di pochi mesi fa molti giornali ospitavano interventi che parlavano di Israele come di una “dittatura”, dopo che il premier israeliano Netanyahu aveva minacciato la Corte Suprema dal prendere posizione contraria alla riforma giudiziaria voluta dal suo Governo, rendendo ormai di fatto impossibile limitare il suo potere.
Ma al di là di Netanyahu e di Israele non sono le nostre stesse democrazie ormai “Fassadendemokratie” che lasciano ancora libertà di voto, sapendo che i parlamenti ormai non contano nulla? La democrazia, un palliativo per alleviare il dolore delle autocrazie, ma niente di più.
Non quello che difende i “valori” delle cosiddette “radici giudaico-cristiane” dell’Occidente, (le quali, oggi, vengono difese più dalla Russia ortodossa di Putin che da repubbliche laiche fondate sull’ideologia gender), il collasso della famiglia eterosessuale e la fine, ormai secolare, del matrimonio come istituto anche religioso.
Di che cosa, dunque, stiamo parlando? Che cos’è questo Occidente che vogliamo difendere?
La verità è che non si sa. O meglio, si sa che si combatte per un Occidente che si auto-legittima come “democratico”, come il “migliore dei mondi possibili”, come il garante del rispetto dei diritti umani, senza esserlo, ormai, da tempo.
Combattiamo pretendendo di essere una “civiltà superiore” alle altre: ma questa pretesa l’abbiamo soltanto noi stessi, e non viene (più) riconosciuta da nessuno.
Non è un caso che Israele sia, oggi come in passato, l’avamposto di questa “arroganza” occidentale nella zona mediorientale, e il più stretto alleato degli americani: perché gli Stati Uniti in realtà non sono che la versione secolarizzata del “popolo eletto”, non sono che i veri eredi di Israele, coloro che hanno raggiunto la “Terra promessa” nel Mondo nuovo.
“Noi americani – aveva scritto un giovane Melville – siamo il peculiare popolo eletto, l’Israele del nostro tempo; noi portiamo al mondo l’arca della libertà”.
Questa idea di “elezione” ha attraversato, come un fiume carsico, la storia dell’Occidente. Ha proceduto fianco a fianco con l’ideale “cattolico” dell’universalismo, della verità destinata in linea di principio a tutti, per compiersi infine nell’Impero americano.
L’Occidente di oggi, però, è il figlio non del cattolicesimo romano, ma del cosiddetto “Impero del bene” americano, quello che si è imposto definitivamente in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Per questo Israele non può essere attaccato. Perché esso non è altro che gli Stati Uniti, non è altro che la terra di cui gli americani sono gli eredi spirituali.
Ma questo “destino manifesto”, che oggi continuiamo a difendere, che tipo di società promette, ormai?
Esso non è più che lo sterile vessillo di un nichilismo sociale diffuso, dello svuotamento di ogni valore, di una finanza distruttiva, di una tecnica priva di ogni scopo che non l’incremento di sé stessa. Per cosa combattiamo dunque? Prof. Paolo Becchi