In scena al Teatro della Corte la versione teatrale del film cult datato 1971 di Elio Petri, personaggio singolare che mischiava alla regia il talento di documentarista e sociologo.
Sullo sfondo di uno scenario grigio, reso ancora più inquietante da elementi metallizzati e, in apertura, dai gesti ripetitivi alla catena di montaggio degli attori, si svolge la vicenda di Lulù Massa, operaio modello dedito al lavoro, con due famiglie da mantenere, entusiasta per la possibilità di lavorare a cottimo e per “la grana” che ne deriva, che costituisce per lui il vero paradiso.
Nonché pervaso dalla convinzione di non essere per nulla inferiore alle prestazioni di una macchina, quei macchinari-divinità da venerare, preservare, rispettare nelle esigenze e caratteristiche, come ricorda ogni mattina, all’ingresso della fabbrica, una voce garbata e persuasiva.
Perchè le attenzioni alla macchina si traducono in salute e produzione. Qualora si rispettino anche le esigenze di chi le muove, però.
E infatti Lulù, antipatico ai colleghi per la sua frenetica attività produttiva, a forza di rispettare le macchine e di identificarsi con le stesse, ha smarrito se stesso, ha dimenticato di curare una vita privata e sociale ormai inesistente, incapace persino di godere di svaghi banali come la televisione. Per non parlare del rapporto che scivola verso il fallimento con la compagna, privo di un vero colloquio e pertanto deficitario anche nell’intimità.
Capitale e lavoro: dove si annidano i rischi più grossi?
Lulù finisce per perdere un dito nel tentativo impulsivo e disattento di disincastrare un macchinario: la mutilazione lo riporta ad una riflessione, pur rudimentale e scarsamente consapevole, sulla sua realtà, che sfocia nella ribellione. E così l’operaio stakanovista scopre di non avere amici, neppure tra quegli studenti sognatori che, a parole, difendevano la causa operaia, né tra i sindacalisti, né tra i padroni, che non esitano a licenziarlo.
Una storia scomoda e, dal punto di vista umano, persino banale.
Ben lo sapeva lo stesso Petri quando disse che verso il suo film erano stati tutti polemici, sindacati, studenti, intellettuali, dirigenti, maoisti: perchè la pellicola non glorificava nessuno di loro, come avrebbero voluto, non sosteneva le ragioni di nessuno; era un film sulla classe operaia.
Uno spettacolo d’impatto, per la regia di Claudio Longhi, con uno strepitoso Lino Guanciale attorniato da un valido cast di giovani attori, per la durata di quasi tre ore, in cui si alternano video di ieri e di oggi, con parallelismi inquietanti sugli attuali nuovi schiavi del lavoro, precari o meno ma quasi sempre mal pagati. Uno svolgimento alleggerito o meglio intervallato da un bravo chitarrista stornellatore che si aggira fra un pubblico attento proponendo canzoni dai testi divertenti e fuori dalle righe.
“Che tuffo nel passato” commenta un signore all’uscita. Non so fino a che punto abbia davvero ragione, se quello descritto da Petri sia davvero il passato e quanta evoluzione ci sia stata nella difficile conquista di territorio verso il rispetto dell’uomo e del suo quotidiano lavoro, nonché verso la capacità della persona di mediare tra le proprie vocazioni simultanee ( e solo apparentemente contraddittorie ) di pompiere e di incendiario.
Lo spettacolo resta al Teatro della Corte fino a domenica 28 aprile.
Elisa Prato