In scena al Carlo Felice la seconda versione di una delle meno conosciute opere di Giacomo Puccini (1858- 1924), in cui l’autore toscano, proveniente da una famiglia di “maestri di cappella” del Duomo di Lucca, rivela una ricerca di stile personale e verista.
Tratta da un testo commissionato da impresari viennesi nel 1913, l’opera andò in scena a Montecarlo nel marzo 1917, in seguito a Bologna in giugno, poi a Vienna nel 1920 con alterne vicende.
Il testo, il cui finale fu cambiato più volte, riflette i problemi e le inquietudini dell’autore nella maturità, tra cui un grave incidente ed il suicidio di una giovane domestica causato dalla gelosia della moglie.
Magda è la malinconica amante del banchiere Rambaldo: vive in un mondo scintillante e spensierato quanto votato all’apparenza e alla spregiudicatezza, celate sotto comportamenti garbati ed eleganti.
Il suo disagio è reso palpabile dalla regia, mentre si muove sulla scena, spesso defilata, come una figura di Degas, in abbigliamento poco appariscente e comunque ben diverso dalla variopinta atmosfera circostante.
Magda sogna l’amore ma è prigioniera di questo mondo dorato al quale non sa rinunciare: prigioniera, alla fine, di se stessa, sembra affidare il suo destino ad un improvvisato chiromante, che le predice un “volo” oltre il mare, in un paese di sogno, ma dall’esito incerto.
Inaspettatamente arriva un amore, forse un po’ troppo repentino, per un uomo altrettanto stanco del suo presente e voglioso di cambiare vita, un uomo che non appartiene al solito ambiente.
E Magda vola con lui verso il sogno, verso la Costa azzurra, dove vive con Ruggero una breve felicità.
Quando il sogno pare diventare realtà, con l’assenso al matrimonio che lui, da bravo figlio ha chiesto alla madre, l’incanto si rompe: paradossalmente il risveglio dal sogno è provocato dalla lettera consenziente che la madre di lui gli indirizza e che lui fa leggere a lei, ad alta voce.
La “rondine” ha cercato il sole per uscire dall’inverno: ora sembra comprendere che quel mondo pulito di vita semplice e di onesti sentimenti che le si prospetta non può essere il suo: si sente “contaminata”, senza vie d’uscita, il peso del passato equivoco ha reso la sua anima asfittica, incapace di volare. Torna la simbologia scenica: dietro alla siepe di fiori gli amici vestiti di strass l’aspettano, nel giardino un albero tenta di sbocciare, ma è nato morto.
Nell’allestimento del Carlo Felice il simbolo la fa da padrone: i protagonisti si muovono in una sorta di circo con personaggi dai costumi coloratissimi, alcuni sessualmente ambigui. Bello il momento in cui Magda e Ruggero si dichiarano reciprocamente e le comparse lentamente si spogliano e depongono pennacchi e lustrini come in una sorta di armistizio verso la vita vuota.
Una trama essenziale, un finale prevedibile per il tempo in cui è stato scritto. Per la donna che moralmente ha sbagliato non vi è redenzione: o muore, pietosamente, nel corpo o muore nell’anima.
Ciononostante l’opera scolpisce un momento significativo di una società che sta cambiando, sorride sul sentimentalismo mentre fa capolino la psicanalisi.
Tutti i personaggi, come i magnetici travestiti in tutù, portano una maschera, l’indulgente Rambaldo compra le persone, gli amanti parlano d’amore e sanno che il sogno non continuerà, gli altri proclamano di rispettare l’amore ma aspettano gli innamorati al varco… Si parla in un modo e si pensa in un altro, il linguaggio non verbale è incombente. Meno, forse, nella coppia più cinica, quella di Lisette e Prunier.
Anche il linguaggio usato è innovativo, è una recita cantata, una commedia di conversazione; la metrica dei versi viene spezzata nel dialogo, continuo, comune, quotidiano.
Accompagna un’orchestra leggera e raffinata, non incombente, quasi da camera.
Il valzer la fa da padrone dall’inizio alla fine e tradisce la radice viennese, da operetta. L’allegro coro, con studenti, è marcatamente pucciniano, presente anche nella Bohème, un caos volutamente organizzato. Una bella prova di bel canto, specie da parte delle donne.
Uno spettacolo piacevole, scorrevole, imprevedibile, a volte cerebrale, da comprendere.
Elisa Prato