Sì, farsi “portare all’Opera”, come recita il titolo dell’iniziativa del Teatro Carlo Felice, può essere molto piacevole, soprattutto quando anche il luogo e la stagione estiva contribuiscono. Domenica 28 luglio sera è in programma la prima de La traviata, il classico dei classici, con tre repliche fino al 1° agosto. La gente entra alla spicciolata nell’Arena del Mare, lo spazio che occupa la piazza in fondo ai Magazzini del Cotone nel Porto Antico di Genova.
Quando, poco dopo le ore 21.15, inizia lo spettacolo, il cielo è quello terso che segue a un tramonto sul mare, con colori caldi e freddi che si perdono gli uni negli altri. La città è sullo sfondo, la Lanterna occhieggia con il suo faro, le navi delle vacanze sono in partenza e sfilano, una dopo l’altra, accanto al palco, con la gente affacciata ai pontili esterni, a godere di pochi attimi intensi di musica perfetta.
Dalla mia posizione in “galleria” assaporo pienamente questo stare all’aperto, in cui ciò che accade intorno alla scena diventa una seconda quinta teatrale in movimento, spiazzante e affascinante al tempo stesso. Mi sembra di non sentire i motori dei mostri metallici, come fossero stati messi a tacere per rispetto: gli interpreti sono microfonati e le loro voci giungono comunque chiare a tutti. Su due schermi laterali sono riportati i testi del libretto scritto da Francesco Maria Piave, ispirato al dramma di Alexandre Dumas figlio, La Dame aux camélias.
Accanto a me siede una coppia di turisti canadesi di lingua francese, entusiasta dello spettacolo e della sua cornice naturale. Lei si chiama Anne-Marie ed è una giornalista che si occupa di affari pubblici e politica per la rete in francese Ici RDI (Réseau de l’information) della CBC (Canadian Broadcasting Corporation). “But aren’t these ships dangerous? We know that in Venice”… No, non è come a Venezia, qui non siamo sul Canal Grande, ma in un porto delimitato.
Quando si spengono i riflettori, il direttore d’orchestra, Jacopo Rivani, sembra imprimere da subito alla musica un ritmo veloce e asciutto.
La regia del giovane Lorenzo Giossi che, diplomato in scenografia a Bologna, ha masticato musica sin da bambino, essendo figlio di un baritono e di un soprano, propone un allestimento sobrio e simbolico, visivamente sintetico, con pochi elementi: un pianoforte a coda bianco, sedie bianche, due lampadari, due specchi e una grande immagine di sfondo. Qui il richiamo all’arte contemporanea, nella distorsione di una Tour Eiffel che si libbra tra Robert Delaunay e Joan Mirò, è chiaro, anche se di qualche anno posteriore a quando si svolge la storia, cioè nel 1850 circa.
L’opera di Giuseppe Verdi, pur essendo forse la più rappresentata al mondo, offre sempre qualcosa di nuovo, se si sta “col muso attaccato allo spartito, a quello che ha scritto il compositore”, come dichiara il regista, “perché lo studio non termina mai”. Non termina mai neppure la voglia di riascoltarla, rivederla, riammirarla perché, come tutti i classici, La traviata è un’opera universale sempre attuale, infinita, che più si conosce e più si apprezza.
Nella gioia di vivere, espressa dalla celeberrima libagione iniziale, già si accenna ai primi sintomi di morte per tisi della protagonista. Ben armonizzato è il duetto dei due innamorati, Violetta Valéry e Alfredo Germont – “Di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero” –, occasione di applausi a scena aperta per il soprano Angela Nisi e il tenore Giulio Pelligra.
Colpisce poi la simmetria, apparentemente per contrasto, tra la sorella di Alfredo e Violetta, nel II Atto. La prima, promessa sposa, viene presentata “pura siccome un angelo” dal padre di Alfredo, un Giorgio Germont severamente interpretato dal baritono Stefano Antonucci, e viene definita da Violetta “giovine sì bella e pura”. La seconda, ritenuta ammaliatrice e seduttrice, vive fedele al suo uomo, avendo rinunciato a “dovizie, onori” e “pompose feste” parigine, e si sacrifica per un amore vero, assurgendo ad “angiol consolatore”, ma perpetuando un tragico destino: “così alla misera ch’è un dì caduta / di più risorgere speranza è muta”.
La purezza di Violetta e del suo sentimento rimane cristallina. La convincente interpretazione della Nisi, quando canta “Amami, Alfredo, quant’io t’amo”, non lascia dubbi, raggiungendo il momento di tensione più alto, in cui trapelano in maniera vibrante le conseguenze tragiche del suo gesto d’altruismo. Nello scarno III Atto, la mobilia della camera di Violetta, ormai in fin di vita, è coperta da lenzuoli, quasi sudari del tempo fugace: “è tardi”. È tardi per tutto nei giorni del Carnevale, in cui i personaggi sono chiamati dall’urgenza a gettare la propria maschera. “Addio, del passato bei sogni ridenti”!
Linda Kaiser