Strepitoso successo ieri sera al Carlo Felice per la prima de La Traviata. Musicata da Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, la storia di Violetta è stata ispirata da“La signora delle camelie”, testo teatrale di Alexandre Dumas (figlio), tratto dallo stesso autore dal suo precedente romanzo, in cui si narrava la storia di Marie Duplessis, cortigiana ed amante di Dumas, morta giovanissima nel 1847, definita dallo stesso “ una delle ultime cortigiane provviste di un cuore.”
La prima rappresentazione dell’opera alla Fenice di Venezia è del marzo 1853.
Notissima la trama. Violetta Valery è una ricercata cortigiana della Parigi abbiente. Quando conosce Alfredo Germont esplode, dopo qualche esitazione di lei, il vero amore. I due vanno a vivere in una casa di campagna, lontani dalla mondanità della capitale. Ma il padre di Alfredo chiede alla donna di rinunciare ad un legame che comprometterebbe le nozze di sua figlia. Alla fine Violetta, pur straziata, acconsente e torna alla vita di prima. Ad una festa reincontra Alfredo che, ignaro delle ragioni della rottura, gliene attribuisce la responsabilità e le getta, sprezzante, del denaro. Violetta sviene.In seguito, consumata dalla tisi, viene raggiunta da un pentito e consapevole Alfredo e muore poco dopo.
La psiche della protagonista è davvero interessante. Libera e fiera di esserlo, almeno al principio, coltiva in pectore il desiderio d’amore di una donna vera e della gioia di essere amata amando. In fondo però si sente costretta nel ruolo sociale in cui è stata confinata, anche se non c’è in lei ombra di pentimento: salvo qualche affiorante contraddizione al momento della morte, quando augura all’amato di trovarsi, dopo di lei, non tanto un altro amore quanto ” una pudica vergine”.
E’ palese che Verdi non ha in simpatia il personaggio di Alfredo, che appare come un provinciale attento alle proprie voglie ma molto meno a capire la tempra della donna che lo ha attratto ed i suoi generosi comportamenti anche finanziari (per qualche tempo il “mantenuto” è proprio Alfredo). Ma per una donna abituata all’umiliazione di essere pagata, il vero amore non ha prezzo.
Il nucleo narrativo dell’opera è lo scontro tra i desideri umani e le beffe del destino, nonchè l’ipocrisia borghese dell’epoca. La donna che per amore rinuncia all’amore è un motivo conduttore del teatro ottocentesco, già presente nel tardo settecento e già introdotto da Verdi nel Rigoletto. Violetta si riscatta non perchè pentita ma perchè ama davvero. Ma la traccia della doppia morale è ancora evidente: per la donna “perduta” non esiste riscatto, o muore fisicamente o resta morta nell’anima ( come mostrerà Puccini un poco più tardi ne La Rondine).
La scenografia proposta dal carlo Felice è innovativa e votata al simbolo, caro al regista Giorgio Gallione, maestro nel coniugare il simbolo all’azione, aspetto già gustato ne “La rondine”. Troneggia nella scena un albero pieno di luce, quella dell’amore. E l’albero spoglio non è mai spento anche quando compare segato nell’ultima scena: l’amore resta e non muore con Violetta.
I costumi sono di forte impatto visivo ed emotivo. Indovinate e suggestive le coreografie e il coro.
Il maestro Renato Palumbo ha saputo sapientemente accompagnare le sfumature psicologiche del testo.
Già nel preludio il suono dei violini che richiama l’aria famosa di “Amami Alfredo” anticipa la passione che percorre anche la dolente parte finale dell’opera, crea aspettativa e pura emozione: l’aria torna nel finale nel momento in cui la protagonista si illude di continuare a vivere, il duetto poi sale e ricade, accompagnando la caduta di Violetta priva di vita.
Arriviamo ad uno dei motivi conduttori dell’opera, l’attenzione per il buon bere di Verdi, figlio di un vinaio, che scrive in “Brindisi”, un’aria da camera, “tu solo bicchiere non sei menzognero, tu vita dei sensi, letizia del cor…se te non ci desse la provvida vite sarebbe immortale l’umano dolor”.
Nell’atto primo della Traviata protagonista è l’ aria a tempo di valzer“ Libiam nei lieti calici”, il brindisi più famoso nell’opera lirica.
Il vino scorre a fiumi tra danze, chicchere e risate e rende coraggioso Alfredo nel proporsi all’amata intonando l’aria “Un di felice eterea” ed ancora “Libiamo, amor fra i calici più ardenti baci avrà”. Emblematico un intero tendaggio fatto di eleganti bicchieri.
La giovane Carolina Lopez Moreno, di ottima presenza scenica, sfoggia una splendida voce specie nei gorgheggi da belcanto che fa perdonare qualche incertezza iniziale.Buone le interpreti femminili.
Del tutto credibili gli interpreti maschili indovinati anche nella fisicità; sempre eccellente il nostro Francesco Meli, nei panni di Alfredo, che ha la sagacia di assecondare i cambiamenti del flusso musicale di Verdi adattandoli al tono emotivo delle battute.
L’opera resta al Teatro Carlo Felice fino al 19 gennaio. Durata prevista 180 minuti.
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Concluso il ciclo decennale delle opere giovanili, cominciato con il Nabucco del 1842, Giuseppe Verdi incanala il proprio stile verso produzioni intimiste, più aderenti all’animo umano: nasce così la trilogia popolare ,“Rigoletto” (1851), “Il Trovatore” e “La Traviata” (ambedue del 1853).
L’opera tutta di Verdi (1813-1901) è pervasa da personaggi appassionati e vitali, inseriti in vicende intense, nelle quali i protagonisti hanno modo di mostrare sentimenti e contraddizioni con grande forza espressiva. D’altra parte il compositore era nativo della laboriosa e generosa provincia parmense, cresciuto tra persone semplici ed autentiche, cosa che gli permise di veder chiaro nell’osservazione del vissuto e di porgerlo in musica attraverso una visione concreta e innovativa.
Verdi, che due anni prima aveva proposto “Rigoletto” ai veneziani, scrive nel gennaio 1853 a De Sanctis: “ A Venezia faccio la Dame aux Camélias, che avrà per titolo, forse, Traviata, un sogetto dell’epoca. Un altro non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi, per mille altri goffi scrupoli…Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da metter in scena. Ebbene io ero felice di scrivere il Rigoletto…”
L’autore parla chiaro quando afferma di voler portare l’attualità in scena, al fine di sfidare le ipocrisie e la doppia morale della classe media del tempo. D’altra parte anche il Nostro stava maturando un cammino personale in quanto i trascorsi della sua convivente, la soprano Giuseppina Strepponi, non erano a tiro con la morale dell’epoca: nonostante accogliesse il pensiero di Dumas – quello che conta è il contenuto del cuore – impiegò quasi un ventennio prima di decidersi a sposarla. ELISA PRATO