Alla Piccola Corte uno spettacolo del ciclo “Rassegna di drammaturgia contemporanea”, godibile, a tratti esilarante, molto ben interpretato, ci induce a riflettere sul mondo italiano della scuola, esplorato stavolta all’interno della sala insegnanti, dove ognuna delle docenti ed amministrative, al riparo dal giudizio degli alunni, può esprimere la propria essenza.
E parlare con il proprio accento regionale. Uno sguardo impietoso e al tempo stesso compartecipe, in quanto in ciascuna delle lavoratrici rivediamo un poco dei nostri colleghi e anche (ammettiamolo) un po’ di noi stessi.
Qualcuno ha osservato che ogni brava persona, quando al mattino si chiude alle spalle la porta dell’ufficio, scende di un gradino nell’evoluzione umana, diventando di botto più invidiosa, più gretta, più serva, più ansiosa di consensi, talvolta quasi irriconoscibile: tutte le “brave persone” alla fine, hanno un ego sensibile agli eventi, e di fronte a situazioni quanto mai attuali, come il balenio della perdita di prestigio, di soldi, del posto di lavoro, reagiscono mostrandosi al peggio.
Per di più, quello che dovrebbe essere il loro principale obiettivo, far bene il proprio lavoro, diventa l’ultimo dei pensieri. E ciò è tanto più grave quando questo lavoro comporta la formazione umana e sociale di giovani individui. Difficile insegnare ciò che non si possiede, la fiducia nella vita, o quanto, nell’inseguire punteggi e consensi, è andato perduto.
Ecco dunque come un gruppo di “educatrici”, pressate dal far quadrare il bilancio scolastico nonchè personale, si ritrovino a confermare luoghi comuni sul genere femminile: parlare tutte insieme con inutili ciance, senza ascoltarsi davvero, solo per sfogare finalmente una repressa emotività, mortificare la curiosità degli alunni con risposte a vanvera, lusingare la vanità della dirigente, salvo poi scrivere ai superiori contro di lei, usare le scarse risorse materiali per fini personali, impiantare all’interno della scuola piccole attività personali fallimentari, ecc ecc.
Serrate nel loro piccolo mondo, inseguono il sogno: il racconto di una rapina in banca compiuta da ladri gentiluomini (uomini, irraggiungibili uomini…) le fa a tratti sognare, evadere, in un incantesimo vissuto tutte assieme, dirigente compresa, finalmente unite.
Ecco una dirigente che, ansiosa di tenere a galla il proprio prestigio, inseguendo anche le curiose dottrine imposte ai dirigenti da qualche anno (che importa la correttezza d’espressione, l’ortografia, ora importano le competenze!) ha perso il senso della misura, del buon senso, dell’organizzazione, della stima di sè.
E perlomeno lo avverte, nella consapevolezza della propria solitudine: “manca, tra le donne, l’unione, la complicità che rende forti gli uomini.”
Alla fine un improbabile, bizzarro investimento prepara per loro un epilogo inaspettato e surreale.
Le solite ignote resta in scena fino al 16 giugno. Il testo è dell’argentino Rafael Spregelburd, adattato da Manuela Cherubini, che è anche la regista.
Elisa Prato