Significativo evento quello offerto dal Carlo Felice ieri sera, all’Arena del Mare: il personaggio della geisha tradita dal cinico ufficiale americano ha colpito ancora, attraverso l’eccellenza delle interpretazioni e dell’ottima orchestra e coro.
La vicenda si svolge al principio del secolo a Nagasaki. Il tenente Pinkerton, appartenente alla Marina americana, aspetta, in compagnia del console americano Sharpless, la giovanissima sposa orientale, conosciuta mediante un sensale: la fanciulla è figlia di un nobile che si è ucciso per ordine dell’imperatore, è povera e praticamente sola al mondo.
Il promesso sposo non fa mistero delle proprie convinzioni riguardo ai matrimoni “ad usum”, ovvero a tempo, come dicevano i romani antichi: in attesa dell’unico legame che ritiene valido, quello con una donna americana, invita il console a brindare non al presente connubio, ma a quello futuro, ed intanto gli partecipa il proprio allegro pensiero sui legami che nel frattempo intende contrarre. “ Lo yankee vagabondo “, afferma, affonda l’ancora alla ventura…” la vita ei non appaga se non fa suo tesor i fiori di ogni plaga…”.
Così si delinea la personalità superficiale ed egoista dell’ufficiale, figura d’uomo spesso presente nei libretti d’opera e ancora non lontana dall’attualità, che non vede che il proprio diletto e tornaconto anche nel delicato campo dei sentimenti, senza badare a dispensare illusioni, umiliazioni e sofferenze nelle vittime prescelte, spesso non sufficientemente autonome o provviste di autostima per reagire efficacemente.
Comportamento purtroppo qualche volta imitato anche dalla donna cosiddetta moderna.
Il console tenta invano di far ragionare l’altezzoso militare opponendo la propria saggezza ed equilibrio: “E’ un facile vangelo che fa la vita vaga ma che intristisce il cor”.
Proprio al console Sharpless toccherà di recare alla sposa abbandonata per tre anni e sempre ingenuamente speranzosa di rivedere lo sposo ( nella stagione del pettirosso….), la notizia del ritorno, certo, ma in compagnia di una nuova sposa, del marito fedifrago.
La giovane, che dichiarando allo zio Bonzo l’intenzione di abbracciare per devozione la fede del marito, si è alienata anche la compiacenza di questo parente ( ma, sola e ripudiata, si definiva felice), ha ormai compreso quale destino la aspetta, con la sola compagnia di una fedele ancella e del figlioletto, nato nel frattempo, di cui l’americano non sa nulla.
Nello svolgimento del testo dell’opera ella rivela una struttura psicologica sana e la consapevolezza dei propri ipotetici diritti di moglie, ma purtroppo non ha i mezzi materiali e manca di sufficiente autostima per farli valere: come tante donne nella stessa condizione opta per la rinuncia, che nella sua cultura significa darsi la morte, con onore, come impone la scritta sullo stesso pugnale adoperato dal padre per uccidersi. Colpiscono le rappresentazioni della lunga rituale, agghiacciante preparazione del suicidio, quasi l’allestimento di una festa, con petali, garofani, vasellame e la veste da sposa.
La scena, semplice ed efficace, i video laterali ad ingrandimento, l’ambientazione dell’opera nell’angolo suggestivo dell’Arena del Mare sono una scelta felice: ogni tanto il passaggio di autentiche ed illuminate navi da crociera e furtive pilotine, sullo sfondo del retropalco, sembrano suggerire ulteriori elementi simbolici, vivibili dal pubblico secondo il proprio stato d’animo.
Gli interpreti, di buone doti vocali, sono perfettamente calati nei personaggi e così i costumi, che appaiono allineati alle situazioni ed alla psicologia degli stessi.
Madama Butterfly ritorna all’Arena del Mare domani sera 28 luglio, ore 21,15.
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Quando si imbattè nella piccola geisha Cio-cio-san, Puccini (Lucca ,1858), aveva già scritto cinque opere.
Dopo Tosca (1900) il Nostro cercava invano un buon libretto. “ Mi annoio.., i migliori anni, gli ultimi della gioventù passano, un vero peccato”, così scriveva da Torre del Lago, località da lui amata ed eletta a residenza. Nella scelta dei libretti Puccini era molto esigente: “ se non mi tocca il cuore non c’è niente da fare”.
Una sera del luglio 1900, mentre Puccini era a Londra per la prima della “Tosca” , andò a vedere al Duke of York’s Theatre, nonostante non comprendesse l’inglese, Madama Butterfly di David Belasco, tratta da una novella orientale di Long. Fu un colpo di fulmine artistico, un amore a prima vista tra l’inquieto autore e il personaggio della dolce e sprovveduta geisha.
La stesura dell’opera avvenne a Torre del Lago, tra difficoltà e ripensamenti, funestati fra l’altro anche da un incidente d’auto, che costrinse il musicista ad una lunga immobilità, e da amarezze nella vita familiare, che si portò dietro per la vita.
Ma la prima alla Scala, nel febbraio 1904, fu un disastro fin dal primo atto e si concluse in una grande gazzarra, forse per “colpa” della protagonista, il soprano Rosina Storchio, cara all’autore ma meno al pubblico: quando nel secondo atto un colpo di vento gonfiò il suo kimono e il pubblico le indirizzò pesanti allusioni, la cantante scoppiò in lacrime.
Puccini non si arrese e nel maggio 1905, l’opera, rielaborata e rappresentata al Teatro Grande di Brescia, fu un trionfo: rinnegata prima, resa felice poi dagli applausi di tutto il mondo. “Piccola creatura mia” scriveva l’autore,” io amo le anime che piangono senza urlare e soffrono con amarezza tutta intima.” La predilezione dell’autore per questa sua creatura era tale che battezzò col nome di Cio-cio-san la sua nave, che solcava le acque del lago di Massaciuccoli e del mare di Viareggio.
Questa tipologia di donna era rimasta talmente impressa nell’intimo del musicista che, anni dopo, stava dando forma ad una simile figura femminile, Liù. Purtroppo “Turandot” rimase incompiuta in quanto il Maestro morì a Bruxelles, dove stava curando un tumore alla gola, nel 1924. (foto di Marcello Orselli)
Elisa Prato