Grande successo e applausi interminabili domenica sera al Teatro Carlo Felice per la prima del “Marco Polo”, opera ispirata al celebre “Il Milione”, dettato nel 1298 dallo stesso quarantaquattrenne Marco, carcerato a Palazzo San Giorgio, al compagno di prigionia Rustichello da Pisa.
Entrambi prigionieri di guerra dei genovesi, rivali della Repubblica di Venezia, dopo le battaglie della Meloria e di Curzola, impiegarono un anno a dettare e trascrivere il racconto dell’eccezionale viaggio di Marco, durato ben ventiquattro anni, attraverso l’Asia e fino alla lontanissima e sconosciuta Cina.
L’opera in commento comincia e finisce proprio in quelle stesse carceri genovesi (con la liberazione inaspettata di Marco, grazie ad uno scambio di prigionieri) e si concentra soprattutto sulla parte del racconto in cui il giovane Marco, in viaggio d’affari col padre Niccolò e lo zio Matteo, deve portare un messaggio segreto del Pontefice Clemente IV a Kublai Khan, nonché ai rapporti con quest’ultimo e alla sanguinosa guerra in corso tra la dinastia Song e il regno di Mongolia.
Il condottiero mongolo Kublai, nipote di Gengis Khan, aveva da poco soggiogato i cinesi, ma avvertiva la difficoltà di gestire e amalgamare un popolo di tradizione millenaria con le sue rozze genti mongole: per cui pensava di avvalersi dell’aiuto di uomini di scienza e civiltà diverse venuti dall’occidente per far accettare ai cinesi una più rapida assimilazione e consolidare il suo vasto impero.
Di qui l’interesse e l’accoglienza benevola riservata a chiunque, dal mercante al religioso, arrivasse dal mondo latino, anche perchè il Gran Khan pareva apprezzare la religione cristiana.
Su tale sfondo il librettista Wei Jin ha immaginato una storia d’amore platonicamente vissuta tra Marco e la bella Chuan Yun, fanciulla appartenente alla dinastia Song con mandato di uccidere.
L’opera, rappresentata in prima assoluta in Europa, viene cantata in cinese, con sovratitoli in italiano, anche dal tenore Giuseppe Talamo nel ruolo del protagonista; ascoltarla in lingua originale rende anche più affascinante il suo ruolo culturale, che invita il pubblico a riflettere sulle differenze della musica e dei suoni orientali da quelli occidentali e sulla loro percezione.
Anche se il tocco delle musiche di Enjott Schneider rammenta spesso, per ammissione dello stesso compositore, lo stile wagneriano, le musiche e gli effetti sonori sono effettivamente assai diversi da quelli che ci si aspetta dalle composizioni occidentali; il coro (del Carlo Felice) sottolinea validamente sentimenti ed azioni non solo con una marcata vocalità ma anche con movimenti di grande effetto scenico.
Le voci dei due protagonisti si contrappongono: possente quella di lui, esile, flessibile e limpida quella di Xiaotong Cao nel ruolo di Chuan Yun.
Una particolare presa magnetica ha sugli spettatori l’ingresso del Gran Khan (il secondo atto è particolarmente incisivo) sia nella sceneggiatura che nell’accompagnamento musicale: è stato usato il canto cerimoniale asiatico, che usa la contrazione della laringe per emettere un tono basso che stimola gli aspetti più profondi della psiche e introduce il clima di attesa e sacralità che accompagna l’ingresso di un capo.
La guerra non è rappresentata ma raccontata: non vi sono battaglie ma una scena spettacolare rossastra che ne fa percepire l’orrore attraverso le parole di quello che fu un uomo di pace come Marco Polo.
L’opera si svolge mediante strutture scenografiche di grandi dimensioni, tipicamente cinesi, che bene si sposano con elementi virtuali già sperimentati in “Aida”.
Sempre di grande suggestione gli inserimenti nel testo del linguaggio poetico orientale che, secondo tradizione, aggiunge al racconto note di soffusa malinconia, specie nei momenti più tragici.
Gli interpreti e la direzione dell’orchestra meritano del tutto gli applausi ricevuti.
Marco non dimenticherà mai la Cina, rappresentata nell’opera dall’apparizione, durante la prigionia, di colei che non solo amò ma che gli risparmiò la vita rinunciando alla sua, come nei drammi ottocenteschi ai quali siamo avvezzi. D’altra parte il cuore vuole essere sempre colmo; quando non lo è protesta, e si riempie da solo mediante il sogno.
Elisa Prato