La morte del cantautore Luigi Tenco, scomparso tragicamente a 28 anni il 27 gennaio 1967 durante l’edizione del Festival di Sanremo, sarebbe stata “un colpo di teatro non riuscito. Come se avesse voluto imitare me: spararsi, e restare vivo. Andava molto una droga arrivata dalla Svezia, il Pronox, che ti dava un senso di sdoppiamento, come se non fossi più responsabile di te stesso. Appena arrivò la notizia mi precipitai a Sanremo. Il festival andava fermato e se fossi stato in gara sarei riuscito a fermarlo. Incontrai Lucio Dalla e lo attaccai al muro. Avrebbe dovuto ritirarsi. Tanto più che la sua canzone si intitolava ‘Bisogna saper perdere’. E tanto più che tutti collegavano Lucio a me”.
A dirlo, in una lunga intervista pubblicata oggi dal Corriere della Sera, è il cantautore genovese Gino Paoli, parlando della sua autobiografia ‘Cosa farò da grande’.
Paoli ricorda quei tempi e il suo rapporto con Tenco, oltre al tentativo di togliersi la vita: “Il proiettile si fermò nel pericardio. È ancora lì, e mi tiene compagnia. Ha anche smesso di suonare al metal detector. Meglio così. Ogni volta spiegavo: ho una pallottola nel cuore. E nessuno mi credeva”.
La pallottola non era la prima scelta: “Provo con i barbiturici, il Nembutal, annaffiati con il calvados, ma non mi fanno niente. Penso di gettarmi di sotto, ma non voglio dare a mia madre il dolore di vedere un figlio straziato. Mi ricordo di avere due pistole. Faccio le prove sparando con la Derringer calibro 5 dentro un libro bello spesso e vedo che il proiettile entra in profondità. Così mi corico sul letto, e mi sparo. Non alla testa, sempre per non dare quel dolore a mia madre. Al cuore”.
All’epoca si disse che lo aveva fatto dopo aver scoperto la storia tra Tenco e la sua compagna dell’epoca, Stefania Sandrelli: “Quello accadde dopo. Luigi mi telefonò: ‘Sono a letto con Stefania’. La presi malissimo e ruppi con entrambi. Se non l’avessi fatto, lui sarebbe ancora vivo. Quella sua telefonata non nasceva da una vanteria maschile, ma da un senso di protezione. Tenco era legatissimo alla mia prima moglie, Anna. Era il suo modo di dirmi che Stefania non era la donna giusta per me”.
Su Tenco racconta ancora: “Lui e io ci siamo fatti l’immagine di poeti maledetti perché nei locali, anziché corteggiare le ragazze, ci mettevamo in un angolo immusoniti e tenebrosi, alla James Dean, con il pugno sulla tempia, così (Gino Paoli per un attimo diventa Tenco immusonito, ndr). Così le ragazze arrivavano. Non ho mai corteggiato una donna. Erano loro a venire da me.
In realtà Luigi Tenco era un gigantesco cazzone. Divertentissimo. Adorava gli scherzi. Il suo preferito era quello della cravatta: si avvicinava sorridendo, ti poggiava una mano sulla spalla, ti faceva parlare, e intanto con le forbici ti tagliava la cravatta.
Una volta, dopo avere visto un film su un suicidio, rifacemmo la scena madre su un tetto di Genova: io fingevo di volermi gettare di sotto, lui di trattenermi. Dovemmo smettere perché si era creata una folla in attesa”.
Ma proprio in quel periodo arrivò il tentativo di suicidio: “Avevo tutto, e non sentivo più niente. Le due donne più belle d’Italia, Ornella Vanoni e Stefania Sandrelli, erano innamorate di me. In garage avevo una Porsche, una Ferrari e una Flaminia Touring. Cos’altro potevo avere? Volevo vedere cosa c’era dall’altra parte”.
“La morte – ha spiegato Paoli – non mi fa paura. Il mio amico della vita, Arnaldo Bagnasco, era semmai convinto che fossi depresso per l’incidente stradale in cui era rimasto ucciso un giovane musicista. Io invece penso che la molla decisiva sia stata la guerra. La consuetudine con la morte. Uno dei miei primi ricordi è la fila dei cadaveri allineati sul ponte di Recco. Eravamo sfollati in collina, e da lì assistemmo al bombardamento alleato che rase al suolo Recco, senza abbattere il ponte. Mio padre disse: tanto vale tornare a Genova. Prendemmo il treno, ma sul ponte dovemmo scendere e camminare. Odore di benzina, di ferro, di morte. La fila di gente con i piedi in avanti non la dimenticherò mai”.