Giornata cruciale presso la Corte di Assise del Tribunale di Genova, dove si sta celebrando il processo per l’omicidio di Davide Di Maria avvenuto il 17 settembre 2016 a San Giacomo di Molassana.
Sono imputati a vario titolo quattro persone: Guido Morso, Vincenzo Morso, Marco Mor N’Diaye e Christian Beron Tovar.
Ieri si è svolto l’interrogatorio di Guido Morso e di Marco N’Diaye, che hanno fornito versioni diametralmente opposte sullo svolgimento dei tragici fatti.
Oggi, invece, dopo il proseguimento dell’interrogatorio di Marco N’Diaye da parte del suo avvocato, è stato sentito anche Cristian Beron Tovar.
Vincenzo Morso, che era intenzionato a fare solo una dichiarazione spontanea, si è rivolto verso Marco N’Diaye, sembra con una frase offensiva, ed è stato ripreso dal giudice. Poi ha chiesto e ottenuto di allontanarsi dall’aula.
Cristian Beron Tovar in aula si è definito più volte una “parte passiva” nello svolgimento dei fatti, ma talvolta si è contraddetto e non ha risposto alle domande del pm. A tal punto da essere “ammonito” dalla presidente togata della Corte d’Assise, Marina Orsini.
Alla base di tutto sta di fatto che Beron ha smentito l’amico, o forse meglio sarebbe dire l’ex amico Marco, in merito al possesso della pistola “cromata”. Allo stesso tempo, però, ha affermato che Guido Morso durante la colluttazione ha cercato di sparargli ed ha accoltellato Marco N’Diaye, da dietro, ad una gamba.
A questo punto, occorre fare un doveroso passo indietro su quanto è emerso in merito a quanto raccontato sulla dinamica dei fatti.
Il 32enne Beron, soprannominato “il colombiano”, ha esordito prendendosela con il fratello di Guido, Gabriele Morso, che in questo processo è chiamato in causa solo per una testimonianza marginale, definendolo “uno con cui una persona normale poteva avere a che fare, a me non faceva altro che chiedere favori” e aggiungendo che “aveva fatto conoscere Cristian e Marco”.
Poi ha raccontato una versione completamente diversa, rispetto a quella riferita ieri da Marco N’Diaye, in merito alla pistola in possesso dello stesso e alle fascette utilizzate per immobilizzare Davide Di Maria.
“Quel giorno – ha in sostanza spiegato Beron – sono arrivato a casa di Marco dopo che lui aveva insistito mettendola anche sul piano personale, del tipo che se non fossi andato non saremmo più stati amici. Mi aveva chiesto di comprare dei prodotti per la pulizia e quando sono arrivato a casa, l’ho trovato ubriaco con una bottiglia di vodka”.
“Marco – ha sottolineato Beron – voleva sapere dei rapporti con i Morso e perché si erano incrinati, in particolare se in tutto questo io o Davide ne avessimo una colpa. Abbiamo litigato e lui, da sotto un cuscino, ha tirato fuori una grossa pistola cromata”.
Il racconto di Beron è continuato con la descrizione dell’arrivo di Davide Di Maria alla casa di Molassana, che si può riassumere così: “Sono stato mandato ad aprire la porta da Marco e mi sono trovato davanti Davidino, che mi ha visto spaventato e quindi mi ha chiesto spiegazioni”.
A quel punto, Davide Di Maria sarebbe entrato in casa e si sarebbe trovato l’arma puntata contro. Poi Marco avrebbe imposto agli amici quello che ha chiamato “un gioco” chiedendo alla vittima di legarsi con le fascette le mani sul davanti e poi di liberarsi. E quindi a Beron di “incaprettare” Davidino.
Secondo il colombiano “Marco pensava che Davide avesse mentito sulla storia del ‘mangiabanane’ per questo voleva capire se Davide avesse detto la verità”.
Poco dopo sarebbero arrivati i Morso, padre e figlio. Davide Di Maria si sarebbe trovato legato faccia a terra e Beron sarebbe stato di nuovo mandato da Marco ad aprire la porta ai due. Il “colombiano” però non li avrebbe avvertiti del “pericolo imminente”.
Alla richiesta del pm del perché non li avrebbe avvertiti, Beron oggi ha risposto così: “Mica dovevo fare io il salvatore della patria, temevo che poi Marco sarebbe venuto a cercare me, sa dove abito”. Di più: “Non mi importava, non erano affari miei”.
Padre e figlio sarebbero quindi entrati nella casa. Vincenzo Morso avrebbe visto N’Diaye armato e quindi avrebbe tirato fuori a sua volta la pistola. Pi si sarebbero affrontati fisicamente.
Di Maria sarebbe rimasto a terra legato, Guido Morso sull’uscio e Beron sdraiato a terra riparandosi con uno sgabello: “Non sono abituato a fare queste cose, queste risse. Poi Davide Di Maria è riuscito a liberarsi e si è gettato nella colluttazione verso Marco. Li voleva separare e continuava a dire basta cosa state facendo”.
Nella colluttazione sarebbe caduta una pistola, finita nelle mani di Guido Morso che avrebbe sparato: “Nel mentre mi sono tirato su. Morso ha puntato l’arma verso di me per sparare, ma si è inceppata e così mi ha colpito con il calcio della pistola. Sono svenuto per un attimo”.
Beron ha continuato a raccontare che non avrebbe più visto “Davide” ma di avere potuto notare Guido Morso da dietro colpire con un coltello Marco N’Diaye ad una gamba e di essere uscito da casa per darsi alla fuga, riuscendo in quel momento a vedere la vittima riversa a terra.
Anziché soccorrere il povero “Davidino”, il “colombiano” sarebbe però rientrato, esclamando: “E’ morto.. Qua ci legano tutti…”.
Alla domanda del pm, che gli ha chiesto come ha fatto a capire che Davide Di Maria fosse morto, Beron ha risposto: “L’ho visto che faceva fatica a respirare, che soffocava e poi girarsi gli occhi”.
Sempre secondo il racconto del 32enne, subito dopo ci sarebbe stata la fuga dei due Morso e l’astuccio dei proiettili sarebbe stato “gettato in giardino”.
Oggi in aula è emersa un’altra circostanza. La sera dopo che N’Diaye era uscito dall’ospedale, avrebbe ospitato a casa il “colombiano” e i due avrebbero concordato la versione delle fascette come “gioco”. Beron ha infatti spiegato più volte di “avere messo le in modo da non fare male a Davide, era un mio amico”.
Il processo è stato aggiornato a lunedì 22 gennaio. Oltre alla madre e alla sorella di “Davidino” probabilmente verrà ascoltato anche Vincenzo Morso che potrebbe rilasciare delle dichiarazioni spontanee. L.B.