Il documento “di programmazione del rischio” in cui nel 2014 venne scritto che il Ponte Morandi era a “rischio crollo”, veniva compilato anche coi dati ricevuti dai sensori che Autostrade aveva montato anni prima.
Tuttavia, secondo quanto scoperto dagli inquirenti che indagano sul tragico crollo del 14 agosto 2018, dal 2015 quell’impianto di monitoraggio strutturale non funzionava più perché tranciato da lavori sulla carreggiata.
Secondo la procura genovese, i sensori non erano stati sostituiti nonostante il Cesi e il Politecnico di Milano ne avessero consigliato l’installazione.
Lo ha riferito oggi l’agenzia Ansa.
Sempre secondo quanto emerso, il sistema era stato poi inserito nel progetto di retrofitting ossia i lavori di rinforzo delle pile 9 e 10, che però non sono mai partiti perchè nel frattempo il ponte è crollato provocando 43 morti.
Dal 2015, è il ragionamento dei pm, il documento veniva compilato soltanto con le prove riflettometriche e non con altri sistemi di monitoraggio.
Un sistema che “forse non era sufficiente a capire le reali condizioni del Ponte Morandi”.
Perché, si sono chiesti gli inquirenti, nonostante i sensori fossero rotti e ci fosse un unico sistema di monitoraggio, senza nemmeno entrare nei cassoni, il “rischio crollo” non era stato preso in considerazione?
Una delle ipotesi è che si dovesse risparmiare sui costi di gestione e che una chiusura parziale o totale della struttura potesse influenzare l’entrata nell’asset aziendale di nuovi soci cinesi e tedeschi.
Intanto, domani sono previsti gli interrogatori di altri due indagati per l’inchiesta sui falsi report: Serena Allemanni e Massimiliano Giacobbi, entrambi di Spea.