Quella dei Mille fu impresa tutta mazziniana
Come crede di aver dimostrato, in un recente libro, chi scrive queste linee, quella dei Mille fu impresa tutta mazziniana, concepita, disegnata, propugnata fin dal 1847, avanti ancora della prima guerra per l’indipendenza italiana.
E resterà sempre argomento di ammirata meraviglia l’identità nei mezzi, nel numero, nella strategia con la traduzione in fatto di tredici anni dopo: due le navi, un migliaio gli uomini, i due reami presi a rovescio iniziando con uno sbarco in Sicilia.
Mazziniana fu ancora l’impresa pel numero ingente dei fedeli al Maestro che vi partecipava: quasi tutti i genovesi, i siciliani, i bresciani; tutti i pavesi e i trentini, in maggioranza i bergamaschi, che furono essi stessi la maggioranza della schiera.
Quando ancora il Generale era esitante ad assumere il comando della spedizione perché dubitoso dell’esito – e conferì l’impulso determinativo la generosa menzogna del Crispi, che l’insurrezione durasse ancora nel centro dell’isola – a Genova, sulle istruzioni fornite dal Mazzini, lavorava al compimento, comunque si fosse, un comitato composto di Maurizio Quadrio, Federico Campanella, Francesco Bartolomeo Savi, Antonio Mosto, Felice Casaccia, Stefano Lagorara di Sampierdarena, commerciante e poeta, all’inglese.
Cooperavano al comitato, Felice Dagnino, Giambattista Casareto, Domenico Abbondanza, Michele Tassara, tutti mazziniani del pari. E già avevano pronta la scelta tra due duci, Giuseppe La Masa e Nino Bixio, quando Garibaldi non volesse risolversi, ciò che per gran ventura d’Italia venne deprecato.
Ma poi, in Napoli, a conquista compiuta, a finale liberazione avvenuta, l’italico Nume ne coglieva sua mercede. Questa: il grido morte a Mazzini!
La terza sentenza capitale pronunciata contro di Lui: la più amara tra tutte, perché escita da voce di folla, per quanto nell’incoscienza sua avvelenata dalla sobillazione degli agenti lafariniani e cavouriani.
Come ben rileva il Castellini, l’opera dei Mille può dirsi virtualmente compiuta, dopo il travolgente assalto al Ponte dell’Ammiraglio dove cadde ferito Stefano Canzio, con la conquista di Palermo. Ma non quest’opera che chiede la storia di Livio, l’epopea dell’Ariosto, può rievocarsi in poche linee.
Vorremmo, oggi, l’impossibile: vorremmo poter dire di tutti, almeno tutti nominarli, questi generosi, e, per non pochi tra essi, cari a noi che nell’aurora della prima giovinezza conoscemmo nel loro vespero, talora offuscato da avversità di sorte o iniquità d’uomini, ma sereno, limpido, per la fierezza del carattere, per l’integrità, la dignità della vita.
Pur vediamo, almeno, nel disordine tumultuario di ricordi storici, di rimembranze non più cancellabili dalla mente – per taluno dalla intima camera del cuore, a dirla con Dante – di scernere un tratto alcune di queste figure, come nel trascorrere vertiginoso di una fantasmagoria di sogno.
Primo il Duce, il Dittatore futuro di due regni che donerà al «sopraggiunto re» per tornarsene allo scoglio di Caprera con una balla di stoccofisso ed un sacco di fagioli.
Eccolo, come in cospetto del mare di Quarto, tra l’azzurro crepuscolare del cielo e dell’onda, lo scorsero gli storici suoi dal Vecchi al Castellini, lo esaltarono il Carducci, il D’Annunzio, il Marradi; eccolo «al collo leonino avvoltosi – il puncio, la spada di Roma – alta su l’omero bilanciando» scendere il cammin breve tra la scogliera, a scrivere nuove pagine della sua epopea, a scriverle con le vittorie come Dio ha scritto la sua gloria nel firmamento con le stelle, dirà il Guerrazzi.
E subito dopo lui, Francesco Crispi che arando il mare da Malta a Sicilia, preparava il campo dove Garibaldi seminava; né degli alti destini che attendevano questo «gigante Pier della Vigna potente» occorre qui dire oltre. Accanto poniamo il capo dello stato maggiore generale, Giuseppe Sirtori, che spogliò l’abito claustrale non l’inclinazione, e portò uno spunto di ascesi religiosa tra le camicie rosse, tanto che lo chiamavano il Cardinale, sobrio come un anacoreta, e per lui dirà Terenzio Mamiani: la filosofia è dei Mille.
Passerà nell’esercito e assumerà, infine, una gran parte nella vita parlamentare.
Poi Nino Bixio, il cui nome, dice l’Abba, suona come colpo di spada: Giasone impetuoso, imperioso, irresistibile dei novelli Argonauti ai quali porta due navi, tutta la flotta dei Mille; e rinnovando in campo la gesta di Roma e del ’59 sarà un risorto Giovanni dalle Bande Nere, spaventevole nella battaglia, ma dolce, affabile coi familiari.
Capo, Antonio Mosto, che non beve, non fuma, non giuoca, non bestemmia, ha il vizio insomma di non avere nessun vizio, diceva il suo Maestro: testa di filosofo antico, la sua vita, quanto mai complessa per cento imprese tentate a pro’ della patria, e tutta esemplare, m’ingegnai riassumerla altrove; ma con pienezza rifulge nei mirabili proemi del Saffi agli ultimi volumi delle Opere del Mazzini.
Luogotenente del Mosto, un altro grande austero mazziniano, Francesco Bartolomeo Savi, per altezza di sentire e austerità di vita uno dei più vicini al Maestro; e non finito suicida, come adombra l’Abba e come si credette a lungo, checché se ne pretende. Dopo di questi, Antonio Burlando, tra i primi fondatori del Tiro a segno nazionale, e tiratore di grande stile (anima mite, ingenua come di fanciullo, era tutta la sua ambizione!)
fu l’iniziatore di Stefano Canzio a segnare il passo militaresco, quel Canzio che gli è a fianco, sergente come lui, e culminerà come generale in Borgogna, dove a Prenois, alla testa di un manipolo di cacciatori a cavallo, in cilindro e frustino, caricherà i tedeschi con elegante impetuosità muratiana.
Carabinieri genovesi Stefano Dapino che nel ’57 rasentò la galera pei moti di Genova, Francesco Carbone che passerà nell’esercito e finirà colonnello dei bersaglieri; e colonnello dell’esercito diverrà Giovanni Dellacasa, il caro Jean che tornato a vita borghese, sarà del ’70 segretario di Giuseppe Mazzini stanziante segretamente in Genova, in casa della sorella, ad estendere le fila di un grande ordito, quelle dell’A. U. R. e a prepararvi il lavoro per la liberazione di Roma.
Carabiniere genovese Enrico Razeto, un altro che non abbandonerà più il Generale per nessuna campagna e in Borgogna guiderà i suoi in fila indiana su di un vasto stradale aperto d’ogni parte, spazzato dal cannone, a sloggiare i badesi da una ben salda posizione in altura, perchè «o Generale o l’ha dito de f… zu ’i tedeschi de lasciù, e, sacr… fâso, lasciù gh’emmo d’arrivaghe tutti vivi o morti» folle temeraria impresa e, come tante cose folli.
E Stefano Olivari – del quale chi scrive crede aver detto abbastanza in tre diversi volumi – che finirà col formare da lui solo tutto il Consiglio superiore d’Agricoltura pel Generale a Caprera.
E Luigi Malatesta, ch’ebbe l’amore del libro come un antico savio o un gran signore inglese, sì da raccogliere una vasta biblioteca; nel temerario coraggio pari all’amico Olivari, in compagnia del quale catturava un bandito ch’era diventato l’incubo delle villeggiature d’intorno ai Giovi, e lo scherno della forza pubblica.
E Paolo Emilio Evangelisti, capitano valoroso al Volturno, poi a Monte Suello, un ghiaccio di fronte al fuoco, ma che non si scioglie anzi viemeglio indurisce.
E Giovanni Fossa, un mazziniano che tornerà cospiratore anche dopo la morte del Maestro partecipando con Federico Campanella al lavoro dell’A.U.R. E Giuseppe Gnecco, maestro d’eleganze, a suo grand’agio in un salotto, in mezzo alle belle signore, come un petit maitre del Settecento, e sul campo di battaglia intrepido, arditissimo, ma sempre con l’eleganza signorile in lui fatta natura, e così lascerà la vita a Digione, composto, corretto, la giubba grigia agghindata come una marsina.
E Natale Cardinale dagli occhi spiritati, dal verbo alto, precipite, e più precipite la mano, un Bixio in proporzioni ridotte, non certo pel coraggio e la prodezza. Te vorremmo ancor tra noi Battista Tassara, nivei i capegli, la barba, l’anima, che tutto ti davi all’arte, alla patria, fino all’ ultimo anelito; e durante la Grande Guerra, altro più non potendo, ti farai infermiere di fratelli, per te figli, sofferenti negli ospedali.
Ma giovine oggi come allora, troviamo a conforto nostro, Egisto Sivelli; irrigidiamoci sull’attenti, presentando le armi a questo simbolo vivente.
Altri garibaldini: Andrea Rossi di Bordighera, il pilota dei Mille; e dei Mille l’alfiere, Simone Schiaffino di Camogli, marinaio biondo somigliante all’Eroe, «occhi celesti, d’oro la barba e il crino» e che cadendo a Calatafimi «subitamente apparisce supino – a mezzo il colle, nel sangue che invermiglia – tutto il pianoro».
Enrico e Benedetto Cairoli che «via con l’unanime impeto fraterno» al Ponte dello Ammiraglio «versan fra i primi l’eroico sangue attinto al sen materno»; Francesco Nullo «stupendo come il telamonio Ajace» ritto in sella come se «cento spade rotei scagliandosi agile e sicuro via sul caval che sanguina e non cade», il più bello tra l’ufficialità della schiera che darà poi la vita per la causa polacca;
Ergisto Bezzi, il leone trentino, profeta del Profeta d’Italia, di cui vide in una grande visione tutta la grandezza ventura; un altro trentino, 0reste Baratieri pel quale l’infausta vicenda d’Africa, non può offuscare il valore spiegato tra le camicie rosse; Giovanni Acerbi, veterano dell’assedio di Roma dove in quella lotta di titani non fu dei minori.
Ancora: Vincenzo Carbonelli, dottore che fornirà anche di medicine i suoi malati, e a Mentana sarà come il quartiermastro generale della schiera garibaldina, e verrà a Genova a dirigervi Il Movimento, caro a Garibaldi, caro a quanti ne conobbero il cuore generoso, l’anima schietta; Francesco Cucchi, intermediario fra, il Crispi e il Bismarck per la sollevazione di Roma nel ‘67 e a Roma si recherà arditamente, pronto a consegnare la testa alla ghigliottina pontificia. Augusto Elia che farà scudo di sé al Duce, uomo di varia fortuna, che morirà deputato.
Giorgio Manin, figlio del Dittatore di Venezia, due volte ferito, solitario eroe, come sovrumano nell’incuria del pericolo. Giuseppe Missori che rappresentava la cavalleria e fu cavaliere tutta la vita per la valorosa squisitezza; e la rappresentava, insieme ad Antonio Simonetta, cavalleggero, che sembra escito da una ballata del Burger, non ombra romantica, ma «uomo certo» latino; come Vincenzo Orsini rappresentava l’artiglieria, e in quell’arma sarà nell’esercito generale di bella fama.
Generale nell’esercito ed aiutante del Re, diventerà Giuseppe Dezza, che a Monte Caro, con un manipolo dei suoi, fece tale resistenza al nemico da stupire Nino Bixio, che in fatto di prodezze nulla stupiva.
Ricordiamo i due veneziani Davide ed Enrico Uziel – fatti genovesi per lunga convivenza fra noi – due volte millenario sangue d’Israele, battaglianti, novelli Macabei, per la patria; Pietro Ripari, il medico di Garibaldi e di tutti i derelitti e gli abbandonati, e un altro medico, Ignazio Occhipinti, palermitano (e non di Bergamo! come elenca il Donaver) pur lui fattosi genovese
Portò sempre la camicia rossa sotto il panciotto, perché gli faceva bene alla salute del corpo e dell’anima. Tra coloro che seguirono il Duce su tutti i campi di battaglia e toccarono la vetta di loro gloria nell’esercito dei Vosgi, rammentiamo Luigi Perla che in Borgogna lasciava la vita,
Filippo Erba – oi ti te set no che mi son Erba de Milan? – col suo brutto Dio! per intercalare, mentre il Sirtori, il Grizziotti, il Mosto, odiavano la bestemmia da quanto il nemico; e Faustino Tanara e Giambattista Tironi, mirabili a Digione come di là e di qua dai Faro.
Fra gli stranieri che diedero il sangue per noi «non taciamo, almeno, dei due ungheresi Luigi Töchory «invitto che la zara vita profonde sorridendo, eterno di itala gloria e di virtù magiara» e Stefano Turr, che darà poi una varia e multiforme attività politica alla sua seconda patria.
Naturalmente, dovendo toccare solo dei Mille, nulla si dice delle successive spedizioni del Medici, del Cosenz, del Corte, del Malenchini, dell’Agnetta, che offrirebbero tutte messe opulenta di nuovi prodi e nuove prodezze. E poi, urgono le ombre magnanime che oggi sciolgono il volo verso Caprera ad attendervi i pochi compagni
superstiti: ombre, si dice, non per lusinga d’immagine, si bene per corruccio e rimpianto consapevoli; ché manca tuttavia il tanto atteso e desiderato Dizionario biografico dei Mille, a restituirci quelle ombre nella pienezza delle sembianze e nella luce della vita.
Lassù allo Zerbino, in Genova, nella casa ospitale di Gabriele Camozzi di Bergamo, che raccoglieva a riunioni fraterne il fior fiore degli esuli, una sera, il 19 dicembre ’58, era andato anche Garibaldi.
Ritto, accanto al pianoforte, nell’ampia sala, con Camozzi da un lato e Bixio dall’altro, aveva l’aspetto calmo e sorridente. Gli furono presentati gli ospiti, egli strinse la mano a ciascuno, poi disse con voce penetrante:
– Con alcuni ci conosciamo e cogli altri ci conosceremo, non è vero? – E diede a quel futuro un’intonazione che fece gonfiare il cuore d’emozione a tutti.
I più vecchi gli si strinsero attorno, discutendo sugli avvenimenti che si preparavano; ed egli stava calmando le esitanze dei più diffidenti, quando entrò nella sala Luigi Mercantini, l’autore di varie poesie patriottiche tra cui quella a Tito Speri e la Spigolatrice di Sapri, in morte di Carlo Pisacane e dei suoi trecento.
Era accompagnato dalla signora. Il Generale strinse loro la mano, scambiò poche parole, poi disse:
– Voi mi dovete scrivere un inno pei miei volontari; lo canteremo andando alla carica e lo ricanteremo, tornando vincitori.
– Mi proverò, Generale, rispose il poeta.
– E la signora Mercantini comporrà la musica – aggiunse, sorridendo, il Camozzi, che conosceva il valore della pianista.
Trascorsero pochi giorni; e il 31 dicembre, l’ultimo dell’anno, si trovarono di nuovo raccolti allo Zerbino gli esuli, più numerosi, più agitati, più impazienti. Garibaldi non aveva dato altri segni di vita, l’imperatore Napoleone non aveva ancora detto le famose parole di capodanno all’Ambasciatore d’Austria [“Mi dispiace che i rapporti fra i nostri due Paesi non siano più buoni come una volta”, n.d.r.],
Vittorio Emanuele non aveva ancora risposto al grido di dolore; ma tutti sentivano nell’aria che qualche cosa di grande si andava maturando e si stringevano intorno a coloro che domani potevano divenire i capi. E poiché Gabriele Camozzi era uno di questi, da lui gli esuli vollero finire il 1858 e incominciare il 1859.
Aspettavano con impazienza il Mercantini: sapevano che doveva portare l’inno e ardevano dal desiderio di udirlo; perciò, quando apparve con la sua signora, gli furono subito tutti intorno.
– Eccolo! Ecco il foglio!
Si fece circolo, si ristabilì il silenzio, e la voce grave e armoniosa del poeta cominciò a declamare:
Si scopron le tombe, si levano i morti
i martiri nostri son tutti risorti!
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome
La fiamma e il nome d’Italia nel cor!
Immaginate quale selva d’applausi accolse questi versi, detti con un’emozione che faceva tremare la voce del poeta e battere il cuore agli astanti!
A un tratto, la signora Mercantini fece sentire alcuni accordi al piano.
– La musica! la musica! – esclamarono tutti, affollandosi attorno a lei.
– Brava la signora Giuseppina! evviva! evviva!
Ma essa sorrideva, preludiando, e spiegava che un inno marziale non era opera da donna, e che la musica era stata composta da Alessio Olivieri, capobanda della Brigata Savoia.
– Ecco gli accordi, imitanti la tromba: zitti tutti! Mercantini canterà solo prima, e noi poi lo seguiremo.
Mercantini aveva voce forte, piena, intonata: ma ecco che uno sorse a dire:
– Con questa musica però non si cammina!
– Sì, no, proviamo. – Ed ecco Camozzi che dispone tutti in fila per due, accanto al piano, e dà gli ordini per marciare.
Si scopron le tombe, si levano i morti
– Ma no, ma sì; è troppo presto, è troppo adagio, va benissimo, è passo ordinario, ma no, i garibaldini marciano a passo di bersagliere…
– Silenzio! intima Camozzi con voce stentorea, – Silenzio, e da capo:
Si scopron le tombe, si levano i morti
– Non c’è male; la prima e la seconda parte cominciano ad adattarsi al passo.
Proviamo il ritornello:
Va fuori d’Italia, va fuori ch’è l’ora
– Ah! qui è davvero lo scoglio! il tempo cambia e pare più lento assai.
I più s’imbrogliano, non riescono a mettere il passo d’accordo con la musica e si fermano; gli altri urlano per ricondurli al giusto, e la confusione aumenta, mentre la signora Giuseppina con pazienza ripete:
– Ma no, ma no, non siete in tempo, signori: ricominciate per carità!
E si ricominciava:
Va fuori d’Italia, va fuori ch’è l’ora
– Uh, finalmente l’hanno capita tutti! Via, via si ricompongono le fila e si ricanti l’inno da capo a fondo!
Questa volta andò bene. E in mezzo a quella schiera d’uomini, di signore, di bambini, che girava a spire nella grande sala, quanti spiriti eletti si videro sfilare! Primo Camozzi, e dietro di lui Pilade Bronzetti, e poi l’altro Bronzetti, Narciso, cantato dal Carducci nel Saluto Italico, e poi Migliavacca, Gorini…
Ma la signora Mercantini s’era levata dal piano, le file s’erano scomposte e Camozzi invitò tutti alla tradizionale cena di fine d’anno; cena che Luigi Mercantini chiuse poi col seguente brindisi:
Chi vuol gli auguri del buon capo d’anno?
Io gli saprò ben dire dove stanno.
Stanno su d’un augel che due becchi punge,
Su d’una man che, a tre dita, segna e unge.
Taglia i becchi e le dita e il colpo è fatto.
Chi non beve all’augurio è, o birbo o matto.
Così nacque l’inno di Garibaldi!
Dal volume di recentissima pubblicazione: Aneddoti Garibaldini – Raccolti da Giacomo Emilio Curatulo – Editore A. F. Formiggini – Roma.