Quattordicesimo puntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore. Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private.
Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione.
Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero.
In questo suo quattordicesimo racconto ci parla di un triste epilogo di una artista “di serie C”, l’omicidio di Gloria…
Franco Ricciardi
—–
Il presidente era veramente un uomo di parola, cosicché, dopo quella movimentata serata del trio, al circolo La Serenissima andai a suonare solo io e riscossi un grande successo: “L’è tanto bravo u Pierin!” dicevano tutti, e pensavo che si riferissero non tanto alle mie capacità quanto al fatto che, oltre ad accontentarli con un repertorio tagliato a loro misura, mantenessi un basso profilo. E quando chiudevo con “Il nostro concerto”, dedicato al presidente, e “La musica è finita”, tutti indistintamente si commuovevano.
Ludo, stranamente, pareva divertito: “Ma sì, Pierin, vanni ti da quelle cariatidi, che io non ghe n’ho que. Ti adorano tanto, però mance ninte!”. Bruno e Mary invece ci rimasero malissimo e mi manifestarono tutto il loro risentimento: Mary mi accusò di scorrettezza: “il posto lo avevo trovato io, non ci saresti mai arrivato, e adesso ci vai tu da solo!”. Gli dissi che ci sarei arrivato comunque, grazie a Ludo e lei mi disse di non nominargli mai più quell’elemento, asserì che ero più falso di lui, un bieco opportunista e avido. Mi aspettavo che mi scacciassero, ma non lo fecero, non era affatto facile trovare uno che mi sostituisse, volevano un musicista autentico, non uno che facesse finta di suonare e quei pochi che c’erano in città lavoravano per conto proprio e quando Mary li contattò dissero subito di non potersi impegnare. Mary attribuì a me la causa di quei dinieghi: “Hai sparlato male di noi! Si capisce che se non possiamo sostituirti puoi fare il bello e il cattivo tempo e prosperare alla faccia nostra!”.
Mi colpiva il fatto che per loro la questione economica, certamente importante, fosse secondaria. Quello che contava di più era la gloria. Entrambi erano convinti che Bruno avrebbe presto fatto successo in tutto il mondo: “Per tutti è andata così! Suonavano nei localini e nei bordelli e poi, da un giorno all’altro, la ruota della fortuna ha finalmente girato dalla parte giusta! Bruno se lo merita, la sua arte deve avere il giusto riconoscimento, dopo tutto quello che ha sofferto, è sacrosanto che lasci il segno!”, così diceva Mary, con occhi pieni di esaltazione e si arrabbiava nel cogliere tra le pieghe del mio viso (i volti comunicano più delle parole, a farci caso, e specialmente Mary era una che ci faceva caso) un segnale del mio scetticismo: “Tu non credi nel duo!” mi gridava indignata e irata. Ero scettico perché mi sembrava di riconoscere la realtà delle cose, perciò mettevo il denaro al primo posto. Altro che gloria, reputavo già un grande successo riuscire a guadagnarmi da vivere suonando! Quella che per Mary era avidità, per me era rispetto per la generosità degli dei e tutte le volte che mi si parava davanti l’occasione di lavorare non mi tiravo mai indietro. E ammettevo anche di avere bisogno di Mary e Bruno come di chiunque altro mi proponesse di suonare per mercede e così, nonostante quelle scenate e quel clima da politbüro, non li lasciai. Ma non era solo la necessità di lavorare a farmi sopportare Mary, coglievo la necessità di quel rapporto, vedevo bene che aveva un suo significato profondo. Una voce mi diceva: “Hai fatto tanto per andare via di casa, credendo di liberarti dalle ansie di tua madre, e adesso hai Mary ad assillarti: si vede che ci sono ancora molti lati della faccenda che ti sono oscuri e che devi chiarirti. E Bruno? Non vedi che sembra tuo padre? È in completa balìa di sua moglie, dipendente, irresponsabile, si lagna che lei lo opprime con la sua premura ma a ben vedere ci marcia alla grande, proprio come ha sempre fatto tuo padre e come fa ora tuo fratello (era uscito dalla clinica ed era tornato a stare con nostra madre e grazie alla cura avevano ripreso a menare un’esistenza vivibile), che ne ha preso il posto. Non dimenticarlo mai: tutto quel che avviene ha un senso ben preciso e per andare avanti nella vita devi sciogliere ogni enigma.” .
E il fatto che Mary e Bruno fossero capitati proprio nel momento della “resa dei conti” (così l’aveva definita la dottoressa bionda) tra me e mia madre, avvalorava quel pensiero. Così, ora che madre aveva smesso finalmente di assillarmi tutti i giorni, aveva iniziato Mary. La sua telefonata arrivava puntuale ogni mattina, alle dieci; la scusa era quella di comunicarmi la data di una nuova serata che aveva trovato, ma più spesso mi diceva che forse ne aveva trovata una, oppure che c’era un tizio che aveva appena aperto un locale, il quale aveva intenzione di fare musica tutte le sere e avrebbe affidato a Bruno il compito del direttore artistico ed entrambi avremmo finalmente avuto uno stipendio fisso.
Fantasie, sogni ad occhi aperti dettati dalla frustrazione e dalla paura di perdermi, che lei s’inventava nella speranza di tenermi agganciato. E tutte le volte mi chiedeva terrorizzata se per caso avevo trovato una serata per conto mio, o con Ludo, o con chissà chi altro, o addirittura che avevo trovato un locale in cui lavorare tutte le sere e quando le dicevo che no, non avevo niente in vista sentivo chiaramente che sussultava di gioia. Una volta esauriti quei preamboli, probabilmente per impietosirmi, cominciava a vomitarmi addosso tutti i suoi problemi esistenziali, dagli imbarazzi finanziari alle sue crisi con Bruno, ai problemi dei suoi figli e dei suoi nipoti. Quindi passava alle criticità sorte nei suoi rapporti con persone che non avevo neanche mai visto, ma di cui lei mi parlava come se le conoscessi perfettamente; mi parlava quasi sempre del suo amico Natale, che faceva il netturbino e le faceva la corte sin da quando erano ragazzi e nonostante lei lo avesse sempre respinto, lui le era rimasto fedele, e diceva con tono di compiaciuta commiserazione: “non perché io sia chissà chi, il fatto è che non se lo caga nessuno, poveresito, è troppo brutto! Adesso si è messo con una nana più brutta e pure più vecchia di lui, figurati! Gli ho detto: guarda che non ti puoi fare vanto di uscire con quella là; non lo vedi che perde i pezzi?! La gente ti compatisce ancora di più! Ti conveniva stare da solo!”. Natale non le dava retta e Mary era convinta che persistesse in quell’incresciosa relazione perché reputava che le critiche di Mary fossero dettate dalla gelosia. In parte era vero, perché Mary, sebbene fosse evidente che Natale non le piaceva, era molto gratificata dal fatto di avere ancora uno spasimante. Ma non lo voleva ammettere e quando la stuzzicavo in tal senso si ribellava con forza e per sviarmi da quel pensiero mi raccontava un’infinità di aneddoti ignominiosi di cui Natale era stato protagonista, sia in gioventù che nel recente passato.
Poi Natale e la sua amica avevano bisticciato e lei lo aveva piantato e allora lui aveva ricominciato a fare la corte a Mary, la quale subito gli aveva chiesto in prestito tre milioni di lire per comprare una Fiat Punto seminuova, perché anche la sua Uno, vecchia di dieci anni, perdeva i pezzi. E quando, dopo qualche tempo, Natale le aveva chiesto se poteva restituirgli almeno 500.000 lire, ché era sorto un imprevisto, Mary aveva sbottato indignata: “Ma come! Fai tanto il generoso e non hai manco gli occhi per piangere?! Capisci in che imbarazzo mi metti a chiedermi tutti quei soldi così presto? Allora che me li hai prestati a fare? Credi che io trovi i soldi sotto al mattone. Io smazzo tutto il giorno per mettere assieme il pranzo con la cena! Il bello è che conosci la mia situazione! Bruno è un artista e io praticamente faccio due lavori per trovargli da suonare, non ho mai tregua, sono piena di pensieri e preoccupazioni. Se fai così, vuol dire che non volevi aiutarmi, anzi! Mi hai prestato quei soldi per poi umiliarmi! Che brutta persona sei!”.
A quelle parole Natale si era offeso e non si era fatto più sentire e Mary, ogni volta che mi chiamava, non faceva che parlarmi di quanto fosse profondamente delusa: – “Capisci, è una vita che mi ripete che mi ama alla follia, che non potrà mai amare nessun’altra, e poi sparisce da un giorno all’altro! Proprio un grande amore! Il fatto è che pensava di potermi comprare con due soldi! Voi uomini siete tutti uguali, guardate alle donne come prede con cui soddisfare le vostre fantasie malate! Che schifo!”. Ma la sua maggiore preoccupazione era quella di aggiornarmi su tutto quello che i fans di Bruno dicevano di lui e di me: cioè che lui era un grandissimo artista e presto avrebbe avuto un successo oceanico, ed io, che ero soltanto un valido tastierista (altrimenti Bruno non si sarebbe mai abbassato a suonare con me), avevo il difetto di essere troppo attaccato al denaro e se mi fossi staccato da Bruno avrei perso l’occasione della mia vita e avrei fatto una brutta fine. Ascoltavo tutte quelle chiacchiere piene di rancore provando quella meraviglia e quel piacere che si provano quando finalmente si comprendono tutti i problemi che ci hanno tenuti in scacco per anni. Quando terminavano quelle conversazioni, per meglio dire, quei monologhi, mi pareva di capire finalmente tutto sulla sindrome del controllo e del possesso, dell’invidia e della gelosia, i sentimenti fondamentali del genere umano, e di conseguenza tutti i perché ai quali, durante l’adolescenza, per immaturità ed eccessivo amore per mia madre e mio padre (e per me stesso) non avevo osato dare risposta. Avrei voluto agire con la massima sincerità con Mary, ma era impossibile, le rare volte che, per esempio, le avevo detto che avevo preso una serata per me solo, lei, dopo avermi rudemente rimproverato e troncato la telefonata, immediatamente mi aveva richiamato per dirmi: “Ecco! Proprio adesso mi ha chiamato Tizio per dirmi che aveva da proporre a Bruno una serata, ma siccome tu, con la tua smania di guadagnare, ti sei già accasato altrove, ho dovuto rifiutare! Chi ci rifonde di questo mancato guadagno?”, così non le dicevo nulla, ma era rischioso, che se avesse davvero trovato una data concomitante, cosa peraltro possibilissima, sarebbe scoppiata una tragedia. Non successe mai, ma l’attesa era snervante, tuttavia insistevo, ché quando tutto andava in porto provavo un’immensa soddisfazione, la stessa di quando ingannavo mia madre da ragazzo. Capitò però più di una volta che Mary trovasse da suonare in locali dove prima ci ero andato da solo e il titolare, ignaro, appena ci vedeva arrivare mi diceva con tono cordiale ed entusiasta: “Ah, ma il tastierista di Bruno è lei! Allora andrà senz’altro alla grande, ché l’altra volta erano tutti contenti!”.
Inutile dire che per tutta la serata Mary mi guardava con occhi di brace e non mi rivolgeva la parola e aveva nei miei confronti tutta una serie di atteggiamenti e di gesti che dire aggressivi è poco. Non era tanto per il “tradimento”, quanto per le parole di elogio che il titolare aveva proferito al mio indirizzo. Anche Bruno si adirava, ma la sua era solo gelosia artistica; si impegnava allo stremo per accattarsi la simpatia del pubblico e del titolare, temendo di non essere riconfermato. Ma il clou era quando comunicavo a Mary che sarei andato in vacanza e quando lei mi chiedeva dove diventavo evasivo. “Ma come, vai in vacanza ora! In piena stagione! Non capisci che sicuramente ci proporranno delle serate e andranno perse anche per noi? Ma allora sei ricco! Perciò sei egoista! E io che mi sbatto per trovare lavoro anche per te e me ne sto qui a crepar di caldo e a respirar l’aria della ciminiera!”, ma per Mary la cosa più grave era che Bruno desiderava da tanto andare in vacanza almeno un week end e quando veniva a sapere che ci andavo andava fuori di sé per il livore e se la prendeva con Mary, le diceva che lo teneva segregato, che lo opprimeva, lo manipolava, che così sempre vestita di nero sembrava il diabolico Rasputin. Nascevano liti furibonde e finiva sempre che Bruno si prendeva una bella sbornia e commetteva gesti sconsiderati, come una sera in cui sparì nel nulla e lo ritrovarono solo all’alba, sdraiato sotto un autotreno, nella zona industriale, con la vestaglia tirata su e le vergogne in bella mostra. E Mary, dopo avermi raccontato quell’ennesimo triste aneddoto del suo travagliato ménage con Bruno (ma mi nascondeva molte cose di cui venni a conoscenza solo più avanti e per altre vie), mi disse: “Ecco! Lo vedi cosa succede?! Tu e le tue maledette vacanze! Io odio le vacanze! Sono solo uno stress, soldi gettati via, uno status symbol, è consumismo schifoso, con i terzomondisti (lei disse terzomondiali) che muoiono di fame! Chi ci va è perché deve raccontare di esserci andato, mica si diverte! Perché non ve ne restate tutti a casa vostra! Se fossi al potere proibirei queste schifezze e il mondo sarebbe migliore!”.
Io le spiegavo che per me le vacanze erano tutt’altro e volevo che a mia figlia non mancasse nulla e principalmente quella gioia di visitare posti nuovi, in Italia e all’estero. Era mio dovere, più che un piacere, perché mia madre, che come Mary odiava le vacanze, pure mi aveva donato quella gioia, ogni estate della mia infanzia, grazie a lei avevo visto la Grecia che ero bambino e Roma, Firenze, Venezia, ben sapevo quanto fosse importante avere certi ricordi, una volta cresciuti. Ora che ero marito e padre, la mia gioia era quella di contemplare la gioia di mia moglie e mia figlia, ecco quanto. E Mary mi gridò: “Io invece non ho il ricordo di nessuna gioia!”, e il suo tono irato che trasudava bile sottintendeva: “quindi nemmeno gli altri devono averlo, se no che giustizia è?”. In tutte le circostanze e in tutti i discorsi che faceva, sprizzava fiele da tutti i pori; sempre vestita di nero, più che Savonarola, Rasputin o la fattucchiera Amelia, mi ricordava la donna in nero nel quadro “La danza della vita” di Munch.
Insomma, oltre ad essere una persona invidiosa era la depressione fatta persona e mi chiedevo se la prima cosa fosse la causa della seconda o viceversa, a volte mi pareva che fosse un tutt’uno e provavo una profonda pena per lei, ma quando manifestava solo odio la stigmatizzavo. In ogni caso, ero convinto che il destino me l’avesse messa davanti perché imparassi a lottare non solo contro tutti quelli come lei, ma contro la parte più oscura di noi che in lei aveva preso il sopravvento. Mary si arrabbiava anche di più quando vedeva che mi adoperavo perché la gioia di mia figlia durasse sempre, non solo in quei dieci, quindici giorni di vacanza. La portavo tutti i giorni al mare, ai “Sette nasi”, che erano a due passi dalla nostra casetta, dove andavano anche tutte le sue amichette con le quali si sfrenava tutta la giornata come un cucciolo al sole. E quando le sue amichette non c’erano, giocavo con lei, mi insegnò a mettere la testa sott’acqua acciocché potessimo giocare alla Sirenetta nella piscina. Lei mi chiamava “Sebastian!” e tutti i presenti si giravano a guardarci divertiti, gli adolescenti si davano di gomito, anche perché ero davvero buffo con le macchie della vitiligine rese ancora più evidenti dal sole e la cuffia in testa. Ma questo non incrinava per niente la mia felicità; ero ben consapevole che sarebbe durata poco e volevo godermi quei momenti pienamente. Cos’era la gloria, in confronto a quella gioia? Lo aveva detto anche Gainsbourg, che la gloria l’aveva assaporata: “L’unico modo di eternarsi dell’uomo è quello di procreare”. Una signora mi si avvicinò sorridente e mi disse con tono sibillino: “Lei sta creando un rapporto indissolubile con sua figlia, lo sa?”. Guardai mia figlia e mi chiesi se stavo sbagliando in qualche cosa. Probabilmente sì, stavo facendo un mucchio di errori, ma le auguravo comunque dal profondo del cuore di diventare una ruota di per sé stessa ruotante. E quando tornavano le sue amichette, andavo a riposare sotto l’ombrellone subito trillava il telefono: era Mary, voleva sapere dove fossi ed io glielo dicevo e le dicevo anche quel che avevo fatto e lei, a differenza di mia madre, che astutamente si teneva tutto dentro, sibilava: “la stai viziando, te ne pentirai”.
Per Mary le ferie erano le serate, ci arrivava sempre carica di aspettative, a volte lasciava a casa il suo vestito nero, consunto e liso, per indossare qualcosa di molto appariscente, ma se ne pentiva quando, una volta seduta di fronte alla folta platea di avventori, si accorgeva che tutti gli occhi erano puntati addosso a lei. Dopo che le avevo comunicato il giorno della mia partenza, mi telefonava anche cinque volte al giorno per cercare di convincermi ad annullare tutto. A volte mi implorava, altre mi minacciava ed io finalmente potevo rispondere come avrei voluto fare da ragazzo con mia madre, cioè con cortese fermezza. E ciò metteva Mary ancor più in furore. A volte mi divertivo a cambiare tattica e semplicemente sparivo. Lei insisteva a telefonarmi ed io insistevo a non risponderle. Quando mi chiamava sul telefono fisso alzavo la cornetta senza dire nulla e lei rimaneva interdetta e stavamo in silenzio per qualche minuto, poi lei mormorava “Piero…” ed io mettevo giù. Il telefono squillava di nuovo e la suoneria mi sembrava più insistente, disperata, ma resistevo, non rispondevo, uscivo a far due passi e respiravo l’aria a pieni polmoni, grazie a quello psicodramma mi sentivo libero come non mai. La mattina della partenza spegnevo il telefono e lo riponevo in un cassetto. Perché portarlo in vacanza? Per rovinarla? Ero con le persone cui tenevo di più al mondo, non volevo comunicare con nessun altro per quei dieci, quindici giorni, non c’era nulla di male in questo. Così, mi estraniavo nel mondo meraviglioso della mia famiglia e tutto diventava solo bello, perfetto. Allora Mary, sopraffatta dalla disperazione, telefonava a mia madre e si sfogava con lei e per me era molto significativo quel ritrovarsi faccia a faccia delle due madri, auguravo loro di comprendere finalmente dove sbagliavano, ma pensavo che il loro orgoglio, derivato dall’eccessiva sofferenza, non le avrebbe mai permesso di essere lucide. Così, quando tornavo a casa riaccendevo il telefono e subito mi squillava fra le mani e vedevo il nome di Mary lampeggiare sul display, era come se stesse urlando: “Rispondi! Rispondi!” Schiacciavo il tasto verde ed ascoltavo con curiosità i suoi rimproveri, e cercavo di annotare bene nella mente ciascuna parola. Appena Mary buttava giù, era mia madre a telefonarmi ed esordiva sempre dicendo: “Perché tormenti quella povera donna?” Ed era proprio come se “ “quella povera donna” fosse lei.
Quando dissi a Mary che Ludo mi avrebbe permesso di usare l’impianto anche per andare a suonare con Bruno, lei non volle assolutamente, mi disse che era una questione di principio e che io certo certe cose non potevo capirle. Aveva tartassato Ignazio finché questi, “per la desesperaciòn”, disse Bruno sogghignando, non aveva comprato l’impianto. I patti erano che lo avremmo usato noi fino a quando non avremmo guadagnato il denaro per riscattarlo. E quando lui, dopo qualche mese, si presentò durante una prova e ci disse: “Avete fatto una trentina di serate, le ho contate. Mary mi ha detto che prendete 150.000 lire a serata, a volte 200.000, quindi ormai avete guadagnato abbastanza da darmi i miei soldi”. Mary gli gridò indignata: “Le ho contate! Ma che mi fai la spia? Voi bottegai siete solo capaci di fare i conti in tasca, ma di calarvi nei panni del prossimo figuriamoci! Basta che state bene voi, gli altri possono pure morire! E anche quando fate i solidali, studiate il modo di guadagnarci e in special modo quando trattate con chi è più povero!”. E anche Ignazio, come Natale, si ritirò, umiliato e offeso e non si fece più vedere e Mary sentenziò: “Meglio così!”. Da quel giorno divenne anche più intraprendente come manager e in breve si videro i frutti. D’estate lavoravamo davvero tanto, Bruno quasi tutte le sere, io tutte, perché alle serate con loro sommavo quelle che facevo da solo o con Ludo. Lui suonava quasi sempre da solo, ma spesso mi invitava per fare dispetto a Mary. Ascoltava i miei racconti su di loro con curiosità ironica. Riguardo a Ignazio e Natale sentenziò: “Non conviene mai lavorare con lo straccione, ti ruberà anche 10.000 lire”.
Gli dissi che io non mi sarei mai fatto incantare dai piagnistei di Mary e Ludo mi disse che non aveva dubbi in proposito, ma che in ogni caso non mi avrebbe giovato continuare a farmela con quei due “piantapuffi”. Ogni tanto, la curiosità lo spingeva a venire a sentirci ma andava via presto: “Suonate sempre le stesse”.
Mi diceva e quando gli dissi che avevamo inserito in repertorio “Pensami”, esclamò: “Belin, che new entry!”, Mary non gli rivolgeva la parola e Ludo mi comunicava a voce alta una nuova data e si divertiva a vedere come si contorceva dal nervoso. A volte, dopo la serata con Bruno, raggiungevo Ludo e anche se arrivavo che aveva finito anche lui, riaccendeva tutto per suonarne due assieme e alla fine mi dava qualcosa, “ché se non ti pago poi non vieni”, mi diceva con tono sarcastico e aggiungeva: “però mi raccomando di dirlo alla Mary, ché te li do apposta per farle un dispetto.”
E puntualmente lo riferivo a Mary, anche perché lei me lo chiedeva, e poi si arrabbiava, non solo ribadiva che ero avido, mi accusava di essere una banderuola, incapace di fare delle scelte, di quelli che tengono i piedi in due scarpe. Anche lei voleva indispettire Ludo e tanto si impegnò che riuscì a piazzare il nostro magico duo (chiamato, per ironia della sorte, Amigos) per tutte le serate di luglio e agosto. Erano tutte sagre paesane: feste dell’asado, raviolate e muscolate, gemellaggi Italia-Cuba, in posti di cui fino ad allora avevo ignorato l’esistenza: Zinola, Quiliano, Porto Vado, Torrazza, Sciarborasca, Pino Sottano e tanti altri. E c’era un pubblico di ballerini appassionati, molti dei quali dicevano di augurarsi di morire su una pista, nel mezzo di un “boogie woogie”; c’erano “quelli del meneito”, erano una ventina, ballavano tutti attaccati gli uni agli altri, un corpo unico che ondeggiava perfettamente a tempo, era affascinante. E alla fine dell’estate fummo chiamati al pianobar del festival dell’Unità, la mitica “settembrata” che si svolgeva alla Foce, sotto al tendone, e una sera un vecchio ubriaco a Bruno che, prima di cantare la canonica “Hasta Siempre comandante Che Guevara” aveva tirato troppo a lungo l’esplicacion, gridò: “Va a durmì!” e subito dopo, probabilmente per essere più che certo che il messaggio fosse stato ben compreso, ribadì in italiano, scandendo bene le parole: “VAI-A-DOR-MI-RE!” Checché ne dicesse Ludo, il quale diceva che solo a vedere quei tendoni, a lui che non gliene fregava niente della politica, diventava di destra, ero lieto di andarci.
200.000 lire a serata per quindici serate, avevo il portafogli pieno e visto che la casetta era diventata troppo piccola, con la bimba che cresceva, decisi di cambiare aria. Anche perché il padrone aveva deciso di aumentarmi l’affitto da 600.000 a 800.000 lire. Ma volevo rimanere in quel quartiere dove mia figlia si trovava troppo bene e, combinazione, dopo sei anni che giravo per quel quartiere in cui le case venivano affittate e vendute senza agenti immobiliari di mezzo, per la prima volta notai un cartello con su scritto “AFFITTASI” in una delle tante palazzine nuove di Via Fabrizi. Subito andai a vedere quell’appartamento e lo trovai bellissimo, con la vista sul mare, anche se parziale, era ridente, moderno, signorile. Mi consultai con Ludo e lui mi disse: “prendila, non fare il pidocchioso!” Così facemmo il gran passo perfino mia madre fu d’accordo, anche se non perse occasione per esprimere il suo pessimismo radicale e mormorò: “Oh, questa sì che è una casa: finalmente ora posso morire.” Non vi dico invece come la prese Mary, ché credo abbiate ormai tutti gli elementi per immaginarlo. Quando sopraggiungeva l’inverno la sua ansia aumentava, perché era più difficile che d’estate trovare serate per il duo, ma fu allora che Ennio e Marina mi chiamarono per accompagnarli nei convegni e con loro viaggiai per tutto il nord Italia, nei grandi alberghi. E anche Ennio (cui avevo continuato a dare lezioni di pianoforte anche con molto profitto) e Marina, sia pur in modo ben differente da quello di Mary, mi fecero pressione per indurmi a suonare solo con loro: “Con te siamo più stimolati!” – Mi dicevano con occhi pieni di esaltazione e fu dura fare capire anche a loro che non potevo legarmi con nessuno e a tutti mi sentivo legato. Mi sentivo come Odisseo alle prese con i suoi compagni e mi preoccupavo perché stando al mito li avrei persi tutti, prima o poi. Ma non solo per questo motivo provavo compassione per loro: mi angustiava il fatto che tutti, chi più chi meno, sognassero la gloria ed ora fingevo di crederci anch’io perché non avevo più il coraggio e la forza di rompere quell’incanto che tanto li confortava della durezza della vita. Forse il mio, in una certa misura, era anche amore, se prendiamo per buona la frase di Dario Baldan Bembo che dice che il vero amico è anche bugiardo. Di sicuro, per quanto ingrata fosse, amavo quella vita, ché era pur sempre la mia vita, o la vita mia, per dirla alla Amedeo Minghi, e sapevo già che in ogni caso l’avrei rimpianta solo che per questo. E infatti ora, a sessant’anni suonati, la sto raccontando, evidentemente, come tutti, non mi rassegno che mi sia scivolata via come sabbia tra le dita e non tornerà mai più. Ma allora ero ancora giovane e pensavo soprattutto a lottare per andare avanti, in certi momenti non avevo nemmeno il tempo di comprendere cosa provassi, ritornavo a casa e mentre contavo i soldi pensavo già alla serata seguente, travolto dalla piena di quell’incessante tourbillon.
E Ludo? Era cambiato: durante la serata spesso si estraniava, mi lasciava da solo e si metteva a telefonare. Una sera dei primi d’agosto eravamo al Garden, in Corso Italia, e durante la pausa, tre persone decisamente particolari, un uomo e due donne, che per tutto il tempo non avevano fatto altro che guardarci con la massima attenzione e applaudendoci ad ogni brano, mi chiamarono al loro tavolo. Lui si chiamava Biagio e si presentò come impresario. Sembrava un inglese: magro, il viso scavato, gli occhiali dalla montatura di celluloide, i capelli ricci e i baffoni grigi con riflessi rossicci, la camicia sahariana, i calzoni bermuda color cachi, i calzettoni lunghi bianchi e i sandali da frate.
Mi disse di essere un ex direttore di crociera e di aver girato il mondo intero, ma conosceva comunque benissimo la Genova by night degli anni sessanta: “Lei non sa che a quel tempo, là – mi disse indicandomi un angolo del giardino di quello che, a suo parere, era stato uno dei locali storici della dolce vita a Genova – c’era un palco a forma di conchiglia e d’estate ci si esibiva gente come Gino Paoli, Sergio Endrigo, Michele, Enzo Tortora e tanti altri. Pensi che incasso doveva fare il locale per pagare quei cachet. Ma anche i musicisti non famosi se la passavano benone, negli anni cinquanta massimamente, quando le navi della marina americana erano ancora ormeggiate in porto e i marinai cominciavano ad ubriacarsi sin dalla mattina, nelle bettole di Via Gramsci e dei vicoli retrostanti. Volevano sentire sempre musica e gli impresari correvano in Galleria Mazzini, dove i musicanti si andavano a sedere nei bar sin dalle nove, in attesa della chiamata. E venivano piazzati tutti, il duo più richiesto era rullante e fisarmonica, ma era anche molto in voga il cantante accompagnato da un chitarrista, l’importante era suonare roba italiana, pizza e mandolino, insomma. I marinai scucivano delle belle mance, si raddoppiava il cachet. Poi si suonava a metà pomeriggio, al tè danzante e alla sera, nei ristoranti, e nei night, quindi la media era di due, tre, nel migliore dei casi anche quattro servizi al giorno. Ho conosciuto musicisti mediocri che si sono comprati la casa e anche qualche fondo, mentre altri che si sono mangiato tutto via via, pensando solo a godersi la vita e sono morti poveri…”.
Ascoltavo affascinato quei racconti e mi dolevo di essere nato nel momento sbagliato. Anche le due donne, che mi furono da lui presentate come artiste, pendevano dalle labbra del loro impresario. Erano molto diverse l’una dall’altra, per aspetto e per età: alla sua destra sedeva la più matura, sempre sorridente, con un caschetto di capelli riccioli biondi e due occhi azzurri penetranti e indagatori: mi disse che si chiamava Miriam e faceva la maga, come se sperasse che le chiedessi subito una fattura. L’altra, molto più giovane, si chiamava Gloria, bruna, con due occhi grandi, iniettati di alcol che trasudavano ansia e cocciutaggine, carina e brillante, sboccata e sguaiata nel ridere e nel parlare, ma simpaticissima. Beveva prosecco a bicchieri, ma per quanto si mostrasse allegra, pure mi parve di scorgere nel fondo dei suoi occhi un lampo di disperata follia. L’impresario mi disse con tono professionale che Gloria aveva bisogno di un bravo pianista che l’accompagnasse per due serate imminenti e sarebbe stata onorata se l’avessi accompagnata io, e Gloria annuì sorridendomi ammiccante. Spiegai che purtroppo ero libero solo per una delle due date e l’impresario, sebbene Gloria gli avesse fatto cenno di no, mi disse di chiedere a Ludo. E Ludo mi disse che non ne aveva voglia, Gloria non gli piaceva: “È desgaibata”, sentenziò quasi con disgusto. Era invece interessato a Miriam: “Potrei accompagnare lei” mi disse sorridendo sornione e quando gli dissi che non era una cantante ma una maga mi disse: “Allora chiedile se può farmi venire il belino dritto!”.
Quando finimmo di suonare andammo tutti e due a sederci al tavolo dell’impresario e, come al solito, Ludo fece il mattatore, dopo averla punzecchiata un po’, disse a Gloria che le avrebbe fatto il favore di accompagnata, naturalmente solo se il compenso fosse stato adeguato, ma le disse che le prove non le avrebbe fatte, ché non servivano a niente. Poi si mise a fare il cascamorto con Miriam e lei ne fu lusingata e quando uscimmo dal locale andarono via assieme. Gloria, mentre mi salutava, mi disse che non era tanto sicura che Ludo fosse in grado di farle fare bella figura e a nulla valsero le mie rassicurazioni. “Anche se sono trent’anni che fa il mestiere, preferirei avere sempre te, Maestro! Non potresti mandare Ludo al tuo posto?” mi chiese con un tono implorante ed io le dissi che spiegare perché ciò era impossibile sarebbe stato troppo lungo e complicato.
La mattina dopo la serata con Gloria Ludo mi telefonò: “Belin, queste sono le serate che trova il grande impresario! A Borzoli… Belin. Com’è andata? Intanto sono arrivato là alle sette e stavo per uscire dalla macchina che scoppia a piovere. Tiro due madonne e appena entrato con la tastiera mi son trovato davanti il titolare e il pizzaiolo con la bandana in testa, appoggiati al banco e a braccia conserte, che mi hanno squadrato da capo a piedi e poi il capo ha detto: “È arrivato”. Diciamo che come inizio non c’è male. Gli ho chiesto dove mi dovevo mettere e mi hanno messo dai cappotti, di di fianco alla porta d’entrata, mi hanno detto che non c’era altro posto. Finito di montare l’ambaradan, gli ho chiesto se potevo avere qualcosina da mangiare, visto che dovevo arrivare fino alla mezzanotte. “Ah, devi pure mangiare”, mi ha risposto il capo, con lo scazzo. “No, no, belin tranquillo che vado al bar di fronte e mi prendo un panino”, gli ho detto. Allora lui ha fatto il finto pietoso: “Ma no, mo’ il ragazzo ti fa una pizza”. Meraviglia! Ho subito visto che non aveva un aspetto invitante, il sugo era acquoso e quando ho fatto per mangiare la prima fetta, la pasta pareva gomma, la tiravo con i denti e si tendeva senza staccarsi. Gliel’ho riportata al pizzaiolo e gli ho detto: “questa falla mangiare a tua sorella”. Allora il capo si è avvicinato e mi fa: “la nostra pizza non è di tuo gradimento? Che peccato! Strano, però, perché piace a tutti quanti quelli che vengono qui dentro.” Allora gli ho detto che, per carità, non lo dicevo mica per me, che sono di bocca buona, ma lo dicevo appunto per quelli che venivano a mangiare là dentro, ché di questo passo non si sarebbe più visto nessuno se avessero continuato a fare le pizze buone solo per tirarle contro il muro e comunque non avevo più fame. “Ma no, se non ti piace la nostra pizza ti faccio fare una pasta dal cuoco” mi ha detto sempre il capo. Così sono andato in cucina e ho capito che mi ci aveva mandato perché era peggio ancora. Il cuoco aveva due mani da fare schifo, mi ha fatto al momento una piattata di spaghetti con i pomodorini e una mozzarella che però non filava, era tutta grumi, gelata, e gli spaghetti erano per metà scotti e per metà crudi. Una merda. E me li sono pure dovuti mangiare in piedi, appoggiato alla mensola storta che minacciava di rompersi, ché non c’era manco una sedia. E c’era una puzza di fritto e un fumo che non si vedeva da qui e là, per non dire del caldo, ci saranno stati cinquanta gradi. Pierin, io lo avevo capito subito che quello era un impresario del belino, solo che non avrei mai creduto che potesse esistere un posto del genere e che facesse pure musica dal vivo. E non avrei nemmeno mai detto che sarebbe arrivata tutta quella gente e chiunque entrava mi dava l’ombrello o il keeway e mi diceva “me lo appendi?” Belin, son venuto apposta! Se avessi preso solo che cinquanta lire a capo sarei venuto ricco, peccato che non ci ho pensato. Poi finalmente è arrivata lei, la star della serata. Non solo è desgaibata, si veste male, ma lasciamo perdere. Come canta? E appunto questo ti volevo dire, che non posso giudicarla perché non l’ho sentita… Intanto non aveva nemmeno il microfono, e mi è toccato di darle il mio che adesso puzza di vino da lontano. E poi ha cominciato: e dammi il reverbero, e non mi sento bene, manco fosse Mina. Le ho regolato al meglio tutte le madonne e mi fa: mettimi “Without you” che provo se funziona tutto. Capisci, “mi metti”, non “mi suoni”. No, non te lo metto, le ho detto, debuttiamo senza rete, e lei si è risentita, mi ha detto: “allora comincia tu, ché io vengo dopo”. Meglio così, almeno non succedevano subito casini. Intanto la pizzeria si era riempita che non ci si poteva muovere, non pensavo ce ne potesse stare così tanta là dentro, i vetri erano appannati A occhio e croce avranno incassato tre milioni, come minimo, una vera ladrata. La gloria si è seduta al tavolo con della gente che è venuta apposta per sentirla, certe facce da galera, figurati! C’era anche il suo uomo attuale, come ho saputo dopo, un energumeno che mi guardava storto, da cagarsi addosso veramente. E lei là che parlava e rideva, scherzava, si faceva i cazzi sé, come se fosse venuta solo a mangiare. Ho cominciato e nessuno mi cagava e ci avrei messo la firma se fossimo andati avanti così fino alla fine, ma poi la fanciulla oxoniense, dopo essersi scoppiata un piatto di spaghetti allo scoglio, che non so come non le sia venuto il colera, finalmente si è degnata di venire. “Cosa posso cantare?” mi ha detto bellamente e io le ho detto: “Cosa sei, scema? Se non lo sai te! Qui c’è il Charlie Lab con ventiquattromila basi, il trasposer e tutti i cazzi e i mazzi, dimmi quello che vuoi cantare e ti dirò chi sei.” E lei mi fa: “Ma non lo so…” e mi sembra impaurita come una scolaretta. “Come non lo sai, non mi hai detto che lo fai di mestiere? Canta “Grande grande di Mina”, è come il blu, sta su tutto”. Mi è sembrato che si fosse decisa, ma mi sbagliavo, appena è terminata l’introduzione, invece di attaccare mi ha guardato terrorizzata e mi ha detto: “Canta tu! Canta tu!” E canto io. Meno male che “Grande grande” va bene sia per i maschi che per le femmine. Ma quando ho fatto partire “Without you”, non mi dice ancora: “Canta tu! Canta tu!” E canto io! Solo che quando hi cantato “Can’t live!” sembravo il cantante buliccio dei Cugini di Campagna, la gente mi guardava come se fossi scemo. Così, finito il pezzo, le ho detto: stai a sentire, vattene a fare in culo là con i tuoi amici, che almeno non fai danni, e per fortuna mi ha obbedito. Vedevo che ogni tanto qualcuno le chiedeva: ma quando canti? E lei gli parlava nell’orecchio, chissà che musse gli avrà raccontato. Sono arrivato in fondo nell’indifferenza generale, ma ero contentissimo, ché poteva andare peggio, con quella gente. E mentre rimettevo tutto a posto Gloria è venuta con i soldi in mano e mi ha detto: “prendili tutti, io non ho fatto niente!” Ma mentre me li dava le piangevano gli occhi e mi sono impietosito, poveraccia, e le ho dato la metà, ma ho dovuto insistere perché faceva l’orgogliosa. Le ho dovuto lasciare ovviamente anche il 10% per l’impresario, cioè 30.000 lire su 300.000, quindi, 135.000 a testa. Ma dimmi te! Che roba! E quando ho messo tutto a posto, visto che il suo uomo l’aveva mollata lì e chissà dove se n’era andato, ci siamo seduti a parlare e lei ha attaccato a bere come una spugna. E tra un riso e un pianto mi ha raccontato la sua triste sorte. Fa la tanto la star però fa anche la cameriera in una pizzeria, al Porto Antico. Si è separata che è poco da un altro sbandato che pure canta, si chiama Fabio, ma mi nun lo canuscio, tu lo hai mai sentito? Comunque hanno fatto pure la belinata di mettere al mondo una figlia e ora se la palleggiano un po’ per uno come capita. Insomma un disastro e come se non bastasse ora si è messa con quel tizio che mi pare un galeotto, e convivono nei vicoli. Che bellezza! Pensa che è pure convinta di fare successo, ha detto che tra poco uscirà il suo disco e farà il botto. Se ti dico che è fuori come non so cosa mi devi credere Pierin”.
Pensando già alla mia serata con Gloria osservai: “Tu però non hai fatto niente per metterla a suo agio, perciò non se l’è sentita di cantare.” Ludo replicò ridendo alla sua solita maniera: “Già, perché ora faccio pure l’assistente sociale. Vedi, Pierin, non ho mai voluto lavorare con le cantanti perché oltre a tirarsela da dive e a non aiutarti a camallare, creano sempre un mare di problemi. Meno male che la prossima serata la fai tu. Però mi raccomando, lasciali perdere poi, lei e quel matto dell’impresario, ché tra tutti mi sembrate il Cottolengo di don Orione”.
Io le prove con Gloria ero disposto a farle, ma fu lei a dirmi che non erano necessarie perché mi aveva ascoltato e si fidava ciecamente. Non aveva la macchina e passai a prenderla a Caricamento, a bordo della mia vecchia Citröen Bx che ormai non ne poteva più. La riconobbi in mezzo a una folla di gente, portava due orecchini enormi e i capelli raccolti tutti in su, era abbronzata ancor più dell’altra sera e indossava un top verde pisello che le lasciava le spalle scoperte e un paio di fusò aderenti blu; ai piedi portava sandali di cuoio con le borchie, i tacchi bassi, una grande borsa bianca a tracolla e appeso all’altro braccio un borsone con tutto l’occorrente per cantare. Prima di salire passò dalla mia parte e mi diede un bacino sulla guancia e gli orecchini mi suonarono nell’orecchio, poi mi disse con tono rispettoso: “Maestro…” e mi porse un foglietto spiegazzato, gliel’aveva dato l’impresario, c’erano le istruzioni per raggiungere a colpo sicuro la nostra destinazione, un circolo sportivo di Rapallo. Non volle che scendessi per aiutarla a sistemare le sue masserizie nel bagagliaio e quando si accomodò al mio fianco notai che le sue unghie delle dita dei piedi colorate dello stesso arancione del rossetto e del fermaglio. Dopo aver posato la borsa ai suoi piedi si annusò le ascelle ed esclamò: “Madonna, come puzzo, me lo dico da sola!”. Non appena ci muovemmo cominciò a parlarmi dei suoi problemi. “Mi faccio il mazzo quaranta ore alla settimana per la miseria di un milione al mese e adesso il proprietario del locale si è fatto arrestare per spaccio di droga. La moglie non ne sapeva niente e sta provando ad andare avanti anche senza di lui, ma non ce la fa, è troppo inesperta, e poi si è sparsa la voce, la gente si è diradata, me lo sento nella mussa che a breve chiude! Quell’altro (il suo ex marito), non solo non ha un soldo, ma ha messo da poco al mondo un altro figlio con quell’altra, stanno alla Scoffera e nel locale dove fa il karaoke prima faceva cinque serate alla settimana, ma ora ne fa solo tre, perché pure là c’è crisi. Mi sa che me ne vado a Roma, ho degli amici e mi dicono che potrei fare la cameriera in uno dei tanti bar o ristoranti di cui conoscono i proprietari, le cameriere cambiano di continuo, non perché facciano problemi, ma perché sono loro stesse che dopo un po’ vogliono cambiare aria e c’è tutto un giro virtuoso. A volte se ne vanno perché si imbarcano in una storia, oppure trovano di meglio da qualche altra parte, o si mettono a fare altri lavori, o addirittura se ne vanno a Londra, ché pure là si trova di tutto facilmente. Insomma, se hai voglia di lavorare, lavoro là ce n’è e io mi devo parare il culo per tempo, perché a Genova non si trova niente”. Mi sembrava di vedere tutta la sua vita, in una casa di quaranta metri quadrati dove c’era sicuramente un disordine matto, con la bambina sbattuta di qua e di là (in quei giorni era con il padre, il quale non poteva riportarla a Genova, perché i carabinieri lo avevano fermato e gli avevano ritirato la patente per ubriachezza).
Pensai che ci voleva un coraggio incredibile a vivere così in specie se da soli e Gloria ci riusciva, tutti ci riuscivano, alla fine, ciascuno faceva la propria parte a questo mondo, avendo un copione scritto. Forse non c’erano colpe e nemmeno meriti, ognuno viveva come poteva, cioè come doveva. Le indicazioni che l’impresario mi aveva dato erano precise e non feci fatica a trovare il posto: scendemmo dalla macchina e prendemmo tutte le nostre masserizie. Ludo aveva calunniato Gloria la quale, senza che glielo chiedessi, mi aiutò a trasportare metà della strumentazione e mostrò anche una forza fisica notevole. Arrivati su trovammo ad accoglierci il presidente, un signore distinto con i capelli grigi e i baffi arricciati, gentile ma che aveva l’aria mesta di chi fa una cosa perché la deve fare. Subito ci portò sul luogo dell’evento, cioè a bordo piscina, era molto elegante. Dopo aver scrutato il cielo con preoccupazione, disse: “È da stamattina che il tempo è bruttino, fa quasi freddo, ma le nuvole ora si stanno aprendo, ché c’è vento: direi che si può stare fuori”. Gloria, dopo essersi guardata intorno contrariata, espresse il suo giudizio liberamente e ad alta voce: “Belin, però a cantare c’è da farsi venire il mal di gola. A saperlo mi portavo il giubbotto di jeans, oppure addirittura la felpa!”. Due camerieri giovanissimi, andavano avanti e indietro e Gloria mi disse: “Quei due non sanno come fare”.
Arrivò il bagnino, un ragazzo anche lui, ma più aitante dei camerieri, i bicipiti bene in evidenza, con la sua canotta rossa, ma aveva un’aria imbambolata, smarrita. Si chiamava Renato e si offrì umilmente di darci una mano. “Renato!” esclamò Gloria con un moto di gioia quasi infantile, poi aggiunse: “Allora stasera ti dedico una canzone!”. Poi rise sgangheratamente. Lui la guardò timido, aveva il ciuffo mezzo sugli occhi e un orecchino di metallo all’orecchio destro, sorrise e non disse nulla. C’erano delle venerande signore sedute sotto il portico, eleganti, con addosso scialli neri e pashmine rosa cipria, gioielli vistosi e sandali dorati; ci scrutavano con curiosità e una certa diffidenza, soprattutto Gloria la squadrarono da capo a piedi, contraendo i muscoli facciali e aggrottando le sopracciglia, facendo rapidi gesti, come galline sull’aia, lanciandosi sguardi allusivi e sentii chiaramente una di loro sussurrare: “Avete visto? Ha il fermaglio, il rossetto e lo smalto delle unghie dello stesso arancione… Che raffinatezza…”.
Gloria sembrava non accorgersi di loro, intenta a trafficare, era un mulo da lavoro, dopo aver aiutato Renato a sistemare gli altoparlanti sui trespoli passò a fare i collegamenti dei cavi al mixer, anche quelli della mia tastiera. Non ebbi il tempo di aiutarla e mi scusai, ma lei mi disse che era un dovere e raggiunse Renato che intanto si era messo ad apparecchiare i tavoli della gente che sarebbe venuta a ballare dopo cena. Lo faceva lui perché i camerieri erano impegnati al ristorante, si vedeva che non era del mestiere. Gloria gli disse: “No, non metterci quelli, amore, non vedi che sono sporchi, che schifo, non esiste! Vanni a prenderne degli altri puliti, spero che li trovi, e anche i ganci per fermare le tovaglie, magari, che ne dici? Io intanto tengo fermo che se no vola tutto…”. Mi allontanai per telefonare a mia moglie ma li tenevo d’occhio a distanza. Lui pendeva dalle labbra di Gloria e con occhi pieni di gratitudine obbediva a tutti i suoi ordini. Quando tornai, era stato tutto ben sistemato e Gloria si era messa ad armeggiare su un suo processore di basi, dotato di schermo dove scorrevano i testi delle canzoni. Mi pareva molto tranquilla e determinata. Il bagnino tornò e i due si misero a scherzare per un po’ e quando lui se ne andò Gloria mi disse ridendo e strizzandomi l’occhio: “Capisci, il ragazzo, mi ha chiesto: cantante o cameriera? E io gli ho detto: tutte e due! Ah! Ah!”. Andammo anche noi al ristorante, era su un’ampia terrazza, dov’era stato allestito un buffet che Gloria definì “di fortuna”: “Belàn, servono le lasagne nella stagnola! Nel piatto no? Cazzo, siamo o non siamo in un posto chic?”. Ci sedemmo al tavolino a noi riservato, c’era un biglietto con su scritto “orchestra”. Gloria ne controllò l’assetto: “Qua hanno fissato le tovaglie con lo scotch e, miah che roba, le posate di plastica e i tovaglioli di carta a quadretti, un tanto al mucchio… stanno troppo male! Belin, ma questi qui non ci sanno proprio fare, mi sa che a fine serata mi propongo” Il servizio è lento, i ragazzi vanno sempre avanti e indietro senza criterio. – Sarà meglio che ci vada io a prendere l’acqua, ho già capito che questi ce la portano tra un’ora e ho una sete!”. La osservai quasi incantato fendere la folla e andare diritta al banco dove c’era una donna bionda, ritta come un fuso, probabilmente la mamma dei ragazzi, perché gli somigliava molto, che prendeva e porgeva le vivande da servire. Anche così a distanza, mi sembrò di indovinare tutto il breve dialogo tra lei ed Gloria, da come muovevano la testa, i sorrisi che si scambiarono ed ogni altro gesto. La donna bionda diede a Gloria una bottiglia di plastica blu e lei subito tornò da me con un sorriso di soddisfazione stampato sulla faccia. Stappò la bottiglia e mi versò da bere con un gesto professionale, poi disse energica: “Adesso vado a prendere le lasagne, sperando che ce ne lascino; guarda là come si danno da fare, sono peggio delle cavallette! Stai pure seduto qua, ci penso io..”. Feci per protestare ma lei mi zittì con un gesto imperioso: “No, stai pure comodo, sono onorata di servire il Maestro!”. Aggirò senza indugio la lunga coda di persone che si era formata a ridosso del buffet; apostrofò tutta quella gente in paziente attesa con poche parole concise e uno sguardo fermo e tutti la guardarono sorpresi e interdetti, con il piatto vuoto in mano, e nessuno aprì bocca. Era tutta fiera di sé stessa: “Gli ho detto che l’orchestra deve mangiare prima se no stasera non si balla!”. E infatti finimmo prima degli altri e ce ne andammo al bar, dove c’era un altro ragazzo a servire. Gloria gli imperò: “Al Maestro gli fai un caffè, io invece prendo un tè caldo, così magari canto meglio. No, quella teiera è troppo piccola, tesoro mio, se ce n’è una bella grande usala, ti ringrazio, voglio proprio un bel cancarone”.
Il ragazzo si mise a rovistare sotto il banco e Gloria stava quasi per muoversi quando trovò la teiera grande. Gloria lo ringraziò con una specie di riverenza e lui le sorrise impacciato, mi guardò con timore, poi azzardò: “Sei occupata?”. Gloria sbottò ridendo nervosa: “Non sono mica un cesso! Comunque no, non sono occupata e se hai pazienza, tra due giorni mi finisce il marchese”.
Il ragazzo rimase impietrito e Gloria, dopo aver ingollato rumorosamente una sorsata di tè, mi disse con un sorriso complice: “Stasera li spettiniamo, maestro caro”. Annuii con la testa guardando altrove, non reggevo a lungo il suo sguardo, mi veniva da ridere e temevo si offendesse. Lei continuò: “Quando inizieremo la gente sarà distratta, lo sai com’è, ma ti assicuro che pian piano ci prenderemo la loro attenzione e alle dieci saranno tutti in pista a ballare, anche se sono tutti vecchi bacucchi”. Non avevo alcun dubbio che sarebbe andata così e infatti la pista si riempì e non si svuotò più.
Avevamo l’ordine di suonare fino a mezzanotte e un quarto al massimo, per evitare possibili problemi col vicinato, invece finimmo di suonare che era l’una passata. Gloria aveva spopolato con il suo repertorio “anni sessanta”, la pista si era riempita e non si era più svuotata e se qualcuno si sedeva e rimaneva lì, lei dopo un po’ andava a prenderlo e se lo portava in pista tenendolo a braccetto.
E a metà serata, ad un tratto aveva annunciato a tutti, parlando forte e chiaro al microfono: “Ora fermi e zitti, perché voglio dedicare una canzone a un nuovo amico che mi sono appena fatta qui dentro!”. Tutti si erano fermati, come sospesi nel tempo e nello spazio, e l’avevano guardata divertiti e un po’ perplessi e Gloria aveva gridato: “Per Renato, il nostro bagnino superfigo”. E poi aveva fatto partire la base: “Renato Renato Renato / ti voglio bene, non l’hai capito / Renato Renato Renato / se non mi baci non vivo più./ Renato Renato Renato / così carino, così educato / Renato Renato Renato / come vorrei non averti amato / Renato Renato Renato / tu sei un mostro di ingenuità. / Renato Renato Renato / vuol dire che morirò per te”.
La gente si era rimessa a ballare con più entusiasmo e in fondo alla terrazza avevo visto Renato che sghignazzava e i camerieri che gli tiravano pugni sui bicipiti. Gloria aveva continuato a cantare, era bello guardarla, ci metteva l’anima, ora sembrava felice. “Ognuno ha diritto di vivere come può”, tutte le sue sventure erano momentaneamente svanite in quello spazio pieno solo di virtù. Alla fine tutti vennero a salutarci e a complimentarsi con Gloria, anche le donne che l’avevano guardata con disprezzo; in molti chiesero al Presidente di farci tornare e lui gridò soddisfatto: “Certo che torneranno! A capodanno sicuro! Telefonerò al signor Biagio per ringraziarlo e per prenotare questi fantastici artisti!”, poi, all’improvviso, l’incantesimo finì e come fantasmi, tutti quei vecchi ci voltarono le spalle e svanirono oltre la porta come fantasmi. Anche quella serata era volata via, restavano i nostri strumenti da smontare e l’acqua immota della piscina. Anche Renato era sparito nel nulla, dopo aver impilato le sedie bianche da giardino una sopra l’altra, facendo un gran fracasso. Pensai che era scappato via perché Gloria lo aveva intimidito, in fondo aveva una decina d’anni più di lui e quella verve che avrebbe intimidito chiunque. Magari per entrambi era stato solo uno scherzo fanciullesco, tanto per passare il tempo. Gloria non sembrava delusa, né turbata, rimise a posto ogni cosa con la stessa energia di quando eravamo arrivati. Aveva un’aria soddisfatta, ogni tanto respirava profondamente e mi disse: “Di queste serate ce ne vorrebbero di più, sarei felice e il bilancio sarebbe a posto”. Mi venne spontaneo accostarmi a lei e darle un bacio sulla fronte: “Sei stata brava Gloria, grazie” le dissi e lei trasalì, mi guardò stupita e ammirata e pensai che forse raramente qualcuno le si era rivolto così. Nella fioca luce che c’era, vidi il lampo dei suoi due occhi scuri e selvaggi, ma durò solo un attimo, già era tornata a concentrarsi sui cavi ancora da annodare e che ripose tutti in buon ordine nella valigia di metallo.
Durante il viaggio di ritorno stemmo in silenzio, ciascuno perso dentro i fatti suoi. Non vedevo l’ora di essere a casa, per cui lanciai la macchina a tutta velocità. Ogni tanto sorvegliavo Gloria con la coda dell’occhio, stava appoggiata allo schienale con le mani in grembo e lo sguardo rassegnato, ogni tanto sobbalzava tra i rumori e i cigolii che provenivano dal cassone. Una volta arrivati a Genova mi fermai in Piazza Caricamento, sotto un lampione, in modo da essere in piena luce. Gloria taceva, lo sguardo triste e assorto. Si sentì un fischio melodioso provenire dalla sua borsa; senza fretta sollevò la borsa, l’aprì e dopo averci frugato dentro per un po’ tirò fuori il suo telefono e lesse il messaggio sorridendo e scuotendo la testa maternamente. Poi ripose il cellulare e si appoggiò di nuovo, come in attesa. “Credi davvero che il ristorante chiuderà a settembre? Le chiesi. “Spero di no, ma ho paura che siamo proprio arrivati al capolinea” rispose lei col tono di chi non vuole farsi nessuna illusione. “Sei finora riuscita ad avere tutto quel che ti spetta, oppure vanti dei crediti presso quella gente?” le chiesi ancora e lei replicò: “Per fortuna li ho presi sempre tutti i soldi; lei mi ha sempre detto che ho una figlia e che devo essere pagata per prima degli altri. Lo so che non è giusto ma che devo fare…”. Non sapevo la risposta e dissi semplicemente: “Allora, arrivederci…” e avvicinai il mio viso al suo per darle bacino. Ci sfioriamo appena le guance e scorsi sul suo viso un sorriso sofferto. Là in quella casa tra i vicoli c’era quel ceffo che l’aspettava. Gloria mi abbracciò e mi strinse con tutte le sue forze, e scoppiò a piangere, così forte che pareva avesse le convulsioni, in pochi istanti mi aveva inzuppato la camicia. “Oh, Piero, Piero caro… Perdonami, scusami… Non ce la faccio più…”. Quel pianto mi annichilì e non trovai di meglio che dirle: “Non piangere”. Se c’è una cosa stupida che si può dire ad una persona che sta piangendo è di smettere di farlo. “Sarebbe meglio morire…” disse Gloria con un filo di voce. La staccai da me e l’ammonii. “Non dire così! Hai una bambina!”. A quella parola lei si riscosse e si calmò un poco. Poi riprese un contegno e si mise a frugare nella borsa, prese un fazzoletto di carta già mezzo sbrindellato, si asciugò gli occhi e si soffiò il naso, poi appallottolò il fazzoletto e lo cacciò fuori dal finestrino. In quel momento passò un gruppo chiassoso di uomini di colore, erano altissimi, forse nigeriani, parlavano e ridevano tutti assieme, le loro voci rimbombarono contro i muri dei palazzi vecchi di secoli. “Ti saluto, Piero” disse Gloria all’improvviso, aprì lo sportello e scese lestamente dal furgone. “Aspetta! – Devi prenderti la tua roba!”. Gloria sorrise impacciata: “Lo so, ma tu stai lì, faccio da sola…” mi intimò con durezza. Aprì il portellone e prese le sue borse strapiene di roba, poi richiuse con violenza. Mi sporsi dal finestrino per salutarla ancora una volta ma si era già dileguata nel dedalo dei vicoli, inghiottita dalla notte.
La mattina seguente, dopo cinque squilli, a tentoni, finalmente trovai il telefono sul comodino e risposi. Era Ludo: “Belin, sei in villa che ci metti tanto? Stavi dormendo. Bravo. Beh, siccome non hai letto i giornali te lo dico io: la Gloria è morta, ammazzata. Non sto scherzando, se non ci credi alzati e vai all’edicola. Pare che sia stato il suo uomo. No, non il suo ex marito, quello non sarebbe capace di ammazzare una mosca, è stato quel bel personaggio che ho avuto il piacere di vedere l’altra sera in quel po’ po’ di locale. Qui c’è scritto che hanno litigato di brutto, come hanno sempre fatto sin dal primo giorno, così riferisce il vicinato e sempre per il solito motivo, la gelosia. A un certo punto a quel matto sarà andata del tutto la merda al cervello e l’ha sgozzata con un coltello da cucina. Pare che lei abbia lottato, ce ne ha messo prima di morire, hanno fatto tanto di quel casino che si sono svegliati tutti. Poi finalmente qualcuno ha chiamato la polizia, ma quando è arrivata la pattuglia lui se n’era già scappato. Alcuni lo hanno visto che usciva dal portone e correva verso Soziglia, lo stanno ancora cercando. Cazzo, ha afferrato il coltello da cucina e le ha tagliato la gola. L’ha fatto. Chissà come doveva essere incerito. Povera Gloria, era meglio che non ti ci mischiavi, sei tra gli ultimi che l’hanno vista viva, o addirittura l’ultimo, Pierin, mi sa che la polizia ti convocherà per interrogarti. Ora ti lascio, ché ho da fare. Fammi sapere se ti convocano, qualunque cosa, io sono qua, ciao”.