Dodicesimo appuntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore. Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private. Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione. Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero. In questo suo dodicesimo racconto racconta il suo rapporto con le donne che lo circondano…
Franco Ricciardi
Al risveglio ebbi un capogiro, perché non riconobbi la stanza e il letto in cui mi trovavo.
E quando ricordai dove mi trovavo mi sentii smarrito, non mi pareva possibile di aver dormito con mia madre, al posto di mio padre. Non era cosa da farsi, eppure era successo. Mia madre non c’era, si era alzata chissà quando, la sentivo spignattare di là in cucina e mi dissi fortunato di questo, avrei avuto un enorme imbarazzo nell’incontrare il suo sguardo. Il fatto che sin dal giorno della morte di mio padre mio fratello avesse dormito là mi fece capire quanto fosse stata devastante per tutti noi la sua scomparsa e mi sentii in colpa per aver tirato avanti senza rifletterci a dovere.
Sempre più inquieto, ripensai al fatto che proprio il giorno prima avevo elucubrato su quella parte di me (non sapevo quale) rimasta altrove, mi sentivo avviluppato in un incantesimo, come se fossi tornato di colpo indietro di vent’anni, anzi, come se non me ne fossi mai uscito da quella casa e avessi solo sognato di essermi sposato e di essere diventato padre. Insomma, avevo perso la bussola e perciò mi girava la testa e al pensiero di dover rimanere in quella situazione fino a quando mio fratello non sarebbe stato dimesso, mi sentii soffocare. Quando sarebbe tornato? Se avessi saputo la data precisa, avrei potuto almeno contare i giorni. La dottoressa bionda aveva detto “presto”, ma cos’era presto? Una settimana, due? Cioè, per due settimane avrei dovuto dormire tutte le notti con mia madre e trascurare quella che ora era la mia nuova famiglia?
“Il destino della famiglia numero uno è di dissolversi per dare vita alla famiglia numero due, che a sua volta un domani si dissolverà per dare vita alla numero tre e così via”, così diceva Marcello Bernardi, grande pedagogo.
Invece Eolo aveva detto a Odisseo: “Ti presento i miei dodici figli, sei femmine e sei maschi. Sappi che siccome li amo tanto, per non farli allontanare da me li ho fatti sposare tra di loro, così stiamo sempre tutti assieme a banchettare!” Certo, c’era qualcosa di bello anche in quell’unione tra fratelli e sorelle, in nome di una famiglia eterna, anch’io spesso immaginavo che il paradiso fosse stare nel lettone in eterno con mia moglie e la nostra bimba. Ma Eolo era un immortale, noi invece eravamo soggetti alla legge della dissoluzione e non a caso per gli antichi greci la parola “stasi” significa “rivolta”, stagnare è ribellarsi alla legge di natura. Ed io ora, senza volerlo, ero ripiombato nell’antica stagnazione, il sortilegio dal quale mi ero soltanto illuso di essermi liberato. Per sfuggire all’angoscia mi alzai, ma fu peggio: ora che era pieno giorno potei constatare che quella casa in cui avevo vissuto tutta la mia adolescenza (la casa di Campobasso, dove avevo trascorso l’infanzia spesso mi appariva in sogno, in modo nebuloso ed inquietante) versava in uno stato di totale abbandono. “È tutto in disordine. Non ti fai venire più la donna in casa ad aiutarti?” chiesi a mia madre entrando in cucina.
Lei si voltò di scatto come se l’avessi morsicata e mi disse con tono aggressivo: “Non ho più voglia di vedere gente estranea per casa! E poi non voglio spendere. La donna te la puoi permettere tu, che con tre ore di musichetta ti metti in tasca tutti quei soldi! E hai pure moglie e suocera ancora giovane, e la figlia, fai il beato tra le donne, mentre io sto qui a tribolare con quel campione!”. Fui annichilito da quell’esplosione incontrollata di gelosia. Che fosse una madre possessiva non era una novità per me, ma non mi sarei mai aspettato tutto quel livore. Notai che non aveva nemmeno più cura di sé e anche questo le puntualizzai, sperando che quell’attenzione un poco la lusingasse, invece si alterò vieppiù. “Allora non l’hai capito che sono sfinita? Che cura posso avere di me, in questa situazione disperata! Vorrei essere morta, ma mi tiene in vita il pensiero di quel che sarà di tuo fratello quando non ci sarò più! A chi lo lascio? Tu non te lo prenderesti certo in casa, figuriamoci, pensi solo alla tua famiglia, cioè a te stesso!”. Così parlò, con occhi pieni di ostilità, ed io provai un forte senso di colpa e di ingiustizia al tempo stesso, ma mi feci forza ed evitai di ribattere, perché in quel momento tutto volevo fuorché fare polemica. Pensai che quelle sue parole dure fossero causate dalla disperazione e le dissi, con tono amorevole ma fermo: “Non pensare sempre al peggio. È una tragedia, ma ora lui si trova nel posto migliore possibile; per cui riposati, altro non puoi fare, almeno provaci. Perché non vai dal parrucchiere?”. Mi guardò sbigottita e con sospetto: “E tu che fai nel frattempo?” le dissi che avrei fatto un salto a casa mia, mi sarei cambiato e poi sarei tornato a prenderla e saremmo andati a mangiare al ristorante. Nell’udire quell’ultima parola sgranò di nuovo gli occhi, ma questa volta meravigliata come una bambina. Poi si mise a riflettere e subito si rabbuiò e proferì minacciosa: “Ma perché te ne sei voluto scappare!” quindi ribadì per l’ennesima volta che avevo agito sconsideratamente a sposarmi e a mettere al mondo una figlia prima di trovare un lavoro stabile: “Se fossi rimasto almeno altri due o tre anni qui con me, ti saresti messo via i soldi e comprato una casa, invece di stare in affitto in quella catapecchia, a regalare tutti quei soldi a quel furbacchione. Non hai proprio potuto aspettare, eh?!”. “Aspettare cosa? Di diventare troppo vecchio per farli, i figli?” ribattei spazientito.
Lei a quel punto perse completamente le staffe, mi ricoprì d’improperi e disse per l’ennesima volta che ero pazzo, ma dopo aver pronunciato quest’ultima parola si morse le labbra e mi esortò di togliermi di torno, che si era dimenticata di quanto fossi sempre stato filosofo. Ma mi ammonì di non tardare, a meno che non volessi farla morire d’angoscia.
Mentre procedevo alla volta di Genova pensavo a quando Telemaco aveva chiesto a sua madre Penelope come avesse conosciuto suo padre e lei gli aveva detto: “Si presentò sul suo carro davanti alla nostra reggia per chiedermi in sposa a mio padre e lui gli disse di no; allora tuo padre, senza dire una parola, voltò il carro e frustò il cavallo che subito si mosse ed io balzai sul carro e me ne andai via con lui, senza voltarmi indietro a guardare mio padre e alla sua reggia non sarei più tornata”.
Ecco, per me il vero matrimonio tra due creature umane destinate ad amarsi per tutta la vita era quello. E pensai anche che mia madre, la quale ben conosceva la mia passione per Odisseo, di sicuro aveva indovinato quel mio pensiero e se ne doleva. Io invece ora mi crucciavo di non aver avuto abbastanza fegato da dirle apertamente il mio pensiero, se mi ero messo a studiare filosofia era proprio perché sin da bambino lei mi aveva sempre puntato minacciosamente il dito contro ammonendomi: “Non fare il filosofo!”. Oltre alle scene dell’infanzia, mi turbinavano nella mente tante parole, e sentivo che erano tutte solo apparentemente sconnesse fra loro, avevano un nesso ben preciso e se fossi stato capace di coglierlo avrei compreso e risolto tutto. E più di tutte mi risuonava nella testa la parola “schizofrenico: “la mente divisa in due”. Ma certo, mi ero sempre sentito scisso, e solo ora facevo caso che la prima cosa che spiegavo ai miei allievi era che la parte sinistra del cervello comanda la mano destra e viceversa e più riesci a dividere la tua mente e meglio suoni…
Il fatto poi che fossimo due fratelli e la disgrazia fosse toccata a lui e non a me, mi turbava profondamente. Era come se fossimo andati alla stessa guerra e, usciti nello stesso momento dalla stessa trincea, lui si fosse beccato una pallottola in fronte e io no. Ma ero poi così sicuro di non essere stato colpito? Magari ero stato solo ferito, magari ero solo un disturbato, uno psicopatico.
Ludo non faceva che ripetere che non ero a posto e non potevo negare che fosse un acuto e lucido osservatore di fatti e persone. Ripensavo soprattutto allo sguardo fisso con il quale la dottoressa bionda mi aveva squadrato da capo a piedi, con maldestra discrezione, e mi veniva l’impulso di precipitarmi al padiglione 11 e chiederle di dirmi fuori dai denti cosa pensava di me. Quando mi ritrovai di nuovo in quella che, dopotutto, per ora era pur sempre casa mia, trasalii nel vedere mia suocera che trafficava con scopa e strofinaccio. Mi chiese accorata come stavano i miei e ci tenne a ribadirmi che potevamo contare sul loro aiuto in qualsiasi momento. Era lì da più di un’ora proprio per dare una mano e si vedeva, la casa era uno specchio. Mi disse di non preoccuparmi, che avrebbe sentito lei mia moglie: “Adesso stiro le tue camicie, poi vado in giardino, devo potare le rose” mi disse sorridendo materna, mentre metteva su l’asse, con estrema naturalezza, come fosse a casa sua. Entrai nella camera del talamo nuziale, non ricavato dal tronco di un ulivo, ma comprato già bello e fatto, regalo dei miei suoceri. Stetti qualche minuto in raccoglimento e giurai a me stesso che avrei difeso l’inviolabilità di quel luogo da tutto e da tutti. Ma poi quel pensiero mi parve ridicolo e uscii, andai nella stanza della bambina e vidi i suoi giochi, sul suo lettino c’erano ancora appese le api colorate e ripensai a tutti i primi tempi del matrimonio in cui mi era sembrato di essere soltanto felice, libero e sentii una stretta al cuore.
Che cosa stavo facendo di male, se non cercare di vivere la mia vita e di promuoverne un’altra che mi auguravo fosse una ruota da sé stessa ruotante? Perché un fatto così naturale doveva essere così complicato? Forse perché non vivevamo più in modo naturale? “Naturale!” Mi dissi irato. Non potevo indugiare oltre, il tempo a mia disposizione diventava sempre più esiguo e dovevo assolutamente tornare in quel maledetto padiglione 11, per capire! Così mi rimisi in macchina e mi avviai e quando trovai parcheggio proprio davanti all’ospedale pensai che fosse un inequivocabile segno fausto del destino. Mentre mi inerpicavo su per il colle trillò il telefono: vidi un numero sconosciuto di un telefono fisso e malgrado non volessi, schiacciai il tasto verde: era Mary: “Pronto, come stai?”. Le dissi subito che non stavo troppo bene, avevo dei problemi familiari, speravo che a quelle parole troncasse la comunicazione, invece aveva molte cose da dirmi e doveva dirmele: “Oh, mi dispiace! Ma tu sei in gamba, sono sicura che li risolverai! Ti ho chiamato perché eravamo d’accordo, te lo ricordi? Volevo innanzitutto dirti che ieri sei stato bravissimo, il migliore, ci siamo deliziati a starti a sentire e Bruno si è rammaricato di non aver portato il sax, se aveste fatto solo che un pezzo gli altri musicisti se ne sarebbero andati via per la vergogna e Gesy vi avrebbe offerto un ingaggio a vita. Ma sarei stata io a dirle di no, ché quella donna è tutto fumo e niente arrosto, si dà arie da grande imprenditrice, ma si vede che non vale niente e quanto prima chiuderà, te lo dico io. Ce li avessi io due soldi come lei, le farei vedere! Ma non sono quelli i posti dove musicisti come te e Bruno devono esibirsi, ben appunto ti chiamo per dirti che abbiamo già una serata, in un posto molto chic, altro che l’Antica Corte! È il circolo “La serenissima”, in Piazza della Vittoria, frequentato da tutta gente altolocata. Sapessi quanto ho penato per riuscire a parlare con il presidente, ma a me chi mi smonta, alla fine ha dovuto ricevermi e l’altra sera siamo andati a parlargli! Vedessi che posto! Ma questo è solo l’inizio, vedrai che presto vi porterò anche a Montecarlo e a Canale 5! E non credere che io sia presuntuosa, anzi, sono la donna più umile e insicura del mondo, se dovessi promuovere me non sarei capace di aprir bocca; ma quando si tratta di mio marito mi si scioglie la lingua, perché so il suo valore, e d’ora in avanti anche il tuo, e vi dico che meritate, perché siete due grandi musicisti!”.
Era un fiume in piena, aveva rotto tutti gli argini, non potei fare altro che essere trascinato dalla sua foga, ma inaspettatamente si creò una pausa come quelle che si creano nei mari in tempesta e ne approfittai per interloquire: “Quando sarebbe la serata?”. “Questo sabato!”. Sentii un colpo alla bocca dello stomaco e mi affrettai a dirle che ero già impegnato con Ludo all’Antica Corte. Mary scoppiò a ridere e la sua risata chioccia mi fece rabbrividire: “Ludo! Quel quaquaraquà che si dà tutte quelle arie? Ma lascialo perdere! Non è degno di pulirti nemmeno le scarpe e ti critica pure! Ci ho parlato, sai, mi ha detto che lavorate assieme da un po’ e tu sei un amorfo e lui ti ha sempre spalato la merda da sotto al culo. Maleducato e ignorante, non ha nemmeno la più pallida idea di cosa significhi essere un artista vero e si permette di sparare giudizi. Che discorso è, anche mio marito non è capace di trovare le serate, ma proprio perché è un grande artista! Perché, Frank Sinatra si trova le serate da solo? Ce lo vedi che si presenta in un posto qualunque e dice “c’avete bisogno”? Ma è chiaro che ci vuole un manager che vada a contrattare, lui deve pensare solo a cantare! E così dovete fare tu e Bruno, che siete due grandi artisti! E comunque, Ludo mi ha detto che ora ha deciso di tornare a suonare da solo, perché, dice sempre lui, si è stancato di sbattersi per te che sei uno stronzo opportunista. Mi ha raccontato che hai preso una serata, da un capitano, e non lo hai coinvolto, mentre lui, anche quando lo volevano da solo, si accontentava di guadagnare meno pur di dividere con te fraternamente. Mi ha raccontato che quando si è rotto l’omero lo hai aiutato, ma quando ti ha dato i soldi che ti aveva promesso per portargli gli strumenti, te li sei intascati. Secondo lui, se fossi stato veramente un amico, avresti dovuto fare la signorata di lasciarglieli, anche a fare solo la mossa, invece te li sei subito arraffati. Allora ti ho difeso, gli ho detto: che c’entra, Pierin ha una figlia piccola, deve pensare prima a lei, mica poteva venire a reggertelo per niente! Che poi lo so, perché me lo immagino, che Ludo l’incidente lo ha fatto perché guida come un pazzo, dimmi se non è vero! Però gliene viene ancora a lui, ho già capito che è il classico tipo che ne ha per tutti e lui è l’unico bravo e deve avere sempre ragione. E tu ti fai ancora degli scrupoli per uno che va dicendo male di te, che se non era per lui a quest’ora saresti attaccato alla canna del gas? Davanti a te certo queste cattiverie non le dice, fa l’amico perché gli conviene, ché se una sera siete lì e arriva uno e vi chiede se suonate veramente, ti dice “suona Pierin” e la fa franca. Pensa che falso che è! È invidioso del fatto che tu sai suonare e lui no! Tutto là sta il problema. Lo so che ti sembra strano che, pur non conoscendoci ancora, io ti parli già così francamente, ma sei così un caro ragazzo, trasparente, un libro aperto, mi pare di conoscerti da una vita! E poi io faccio così con tutti, sono così come mi vedi, istintiva e diretta, non ho peli sulla lingua. A volte esagero, lo ammetto, però almeno puoi stare tranquillo che non ti farò mai una faccia davanti e una dietro. Con me, patti chiari e amicizia lunga. Perciò, fatti pure la tua serata dal capitano, quando l’hai accettata non ci conoscevi ancora, ci mancherebbe. Solo che d’ora in avanti mi farai il favore di non prendere altri impegni, se no, capiscimi, se nel frattempo io trovo un’altra serata nella stessa data, poi facciamo dei pasticci e allora m’incazzo, perché sai, io sono buona e cara, generosa, a chi è amico gli do anche l’anima, ma se mi si pugnala alle spalle allora divento una belva…”. Allibito ed affascinato, assorbivo quel fiume di parole pronunciate con quella voce arrochita dal fumo, con un tono ansioso e ansiogeno che suonava minaccioso. E duravo fatica a trattenere il riso nell’udire quella coccina estremamente volgare, quel dire “oniuno” invece che “ognuno”, “in iuno”, anziché “in uno”. Era anche ripugnante, ma la curiosità di vedere dove quella donna bizzarra volesse arrivare vinceva la ripugnanza. A volte si interrompeva e mi chiedeva: “ci sei sempre?”, quindi riprendeva imperterrita: “Se mai, se qualcuno ti offrisse lavoro, mi darai il suo numero, così ci parlo io, ché ci so fare meglio di te e così stai sicuro che lo convinco a prendere anche Bruno, ché col sax è tutta un’altra cosa, è più elegante, e poi, eleganza a parte, è giusto che anche lui lavori, dobbiamo mangiare tutti. E bada che per tutto questo mio sbattermi non voglio una lira, io un lavoro ce l’ho, sto qui a tribolare nell’ufficio di un assicuratore, ci vengo tutti i santi giorni, è uno stronzo che mi sfrutta, smazzo per lui otto ore e mi dà la miseria di un milione al mese, una parte in nero, ché mi fa figurare part-time e gli straordinari mica me li paga. Ma non m’importa, tanto sono sempre stata sfruttata, ho avuto una vita d’inferno, il mio primo marito mi dava anche delle botte, ci potrei scrivere un libro su tutto quello che ho passato! Ma quando vedo mio marito che suona ed è felice, e tutta la gente lo ascolta ammirata, mi dimentico di tutto e sono felice anch’io e lo sarò di più quando lavorerai con noi. Vedrai come sarà bello andare d’amore e d’accordo, in tutta onestà e trasparenza. Sì, perché, anche se sarei capace anch’io di essere disonesta, io sono onesta, proprio non ci riuscirei a vivere come quelli che si mettono la maschera e vanno in giro con la volpe sotto il braccio. E Ludo è uno di quelli, altro che due facce, quello ne ha cento! È un gancio, te lo dico io. E poi c’è qualcosa in lui che ancora non mi spiego, ma so che c’è e non mi piace per niente. Sono una sensitiva, con le persone non mi sbaglio mai! Perciò ti dico: lascialo perdere, credimi, ho vissuto abbastanza da indovinare come vanno a finire certi rapporti. Digli che sabato non ci vai, che sei impegnato con noi, digli che tu e Bruno avete formato un duo esclusivo. Tanto l’Antica Corte chiuderà presto, non ci verrà mai nessuno. Vedrai giovedì che vai, ci scommetto quello che vuoi che la serata andrà buca, chi vuoi che si ficchi in quella cantina umida, per mangiare e bere rumenta, la gente mica è scema che butta via i soldi. E poi Gesy vi dà 100.000 lire a testa e con la lacrima. Dovevi sentirla, ieri, come si lamentava davanti a tutti, che chiedete troppo per i vostri meriti. Invece col presidente della “Serenissima” ho pattuito 150.000 a testa e non c’è stato nemmeno da discutere, ché sa che io gli vendo la qualità. Ma poi non è solo per i soldi che ti conviene di più venire con noi: con mio marito fai un figurone, invece con quel fanfarone ti rovini solo la reputazione. Tu hai una famiglia, Pierin, e mi hai appena detto che adesso hai pure dei problemi gravi. Non voglio sapere che problemi sono, ma se vuoi confidarti io sono qua. Di me ti puoi fidare ciecamente, sono una tomba, anche se mi dicessi che hai un’amante, che io certe cose le abborro, non ti farei mica la spia, ti direi che sei una testa di cazzo, sì, ma terrei la bocca chiusa. Ma so già che non si tratta di amanti e roba simile, si vede che sei un bravo ragazzo, che hai anche la testa sulle spalle, ti ho guardato bene, non bevi alcolici, non fumi e ti invidio, perché io sono una ciminiera e mio marito pure. Invece hai visto quell’altro, Ennio, che si crede Pavarotti, tutto pieno di sé! Ecco, quella è l’unica cosa su cui sono d’accordo con Ludo! Ma come, sei un avvocato, hai una bella moglie e due figli, ché li conosco, anche se lui, falso come Giuda, fa finta di non conoscermi, e sua moglie è una bravissima donna, oltre che bella; e quello si va ad impelagare con quell’altra, anche lei con quel presuminio! Là che ripeteva: “sono una cantante”. Quale cantante, il canto è solo una scusa per andare a fare le loro porcherie, che però poi il fascino della novità passa presto e le famiglie sono belle che rovinate! E il bello è che è sposata pure lei! Ma si sa com’è: più sono ricchi e più si annoiano e finisce che chi troppo vuole nulla stringe. Che schifo! Quell’ipocrita, se dovesse sudarsi la zuppa come me, vorrei vederla ad andare in giro a cazzeggiare, sempre con la piega fatta, e si mette pure la minigonna, come se fosse ancora una bambina. E fa tutta la refiosa, con la puzza sotto il naso! Ma guardati allo specchio! Proprio la gente non si rende conto e non si merita quello che ha. Eh, l’ho sempre detto che se fossero tutti come me il mondo sarebbe migliore…! Ad ogni modo, tu stai tranquillo che con me senza lavoro non ci rimarrai mai, ora che so che potrò contare su di te, ogni mattina mi attaccherò al telefono e chiamerò il mondo intero per proporvi e quanto ci scommetti che nel giro di un anno arriverete in televisione? Vedrai se mi sbaglio! Va bene, ora ti lascio andare, che ho da fare e tu hai i tuoi problemi. Però tu se hai bisogno di qualunque cosa chiamami, mi raccomando, anche di notte, io mi precipito subito, ormai lavoriamo assieme, ci mancherebbe. E dì a Ludo che si arrangi, visto che lui per primo dice che vuole andare da solo. Voglio vedere che combinerà. Diglielo: “Vai da solo!” Come vorrei essere te solo per dirglielo! Però non dirgli che te l’ho detto io di mandarlo a fanculo, mi raccomando! Fammi sapere, ora ti sei impegnato con noi, non fare che non vieni, se no ci crei un danno incalcolabile!”.
Ero arrivato già da un po’ sulla soglia del padiglione 11 e non avevo fatto altro che girare su me stesso in attesa che Mary la finisse e ora che non sentivo più la sua voce cacofonica, mi pareva di avere nella testa uno sciame di api che ronzavano. Spinsi la porta ed entrai, andai dritto nello studio delle dottoresse, anche se, oltre a come stava mio fratello e quando sarebbe uscito da lì, non sapevo più cosa chiedere. Bussai timidamente e udii un “avanti!” deciso che mi fece venire voglia di girare i tacchi e andarmene, ma una forza a me estranea e implacabile mi fece spingere la porta e mi ritrovai in quella grande stanza tutta bianca, davanti alla sola dottoressa bionda. “Si accomodi” mi disse, sempre con tono deciso, indicandomi una delle due sedie su cui ci eravamo seduti io e mia madre soltanto qualche ora prima. Distolsi lo sguardo, ché non tolleravo la fissità del suo e della smorfia contratta: “Sono tornato perché ieri non ho avuto il tempo, né il modo di farle alcune domande che credo importanti…”. Finalmente osai guardarla e colsi un suo moto di gioia, come se fosse venuta li apposta per ricevermi e sentirmi dire quelle parole. Con un cenno rassicurante mi invitò a parlare: “Vorrei sapere di preciso quando mio fratello uscirà, così da organizzarmi in questi giorni con mia madre”. La dottoressa abbozzò un sorriso bonario e rispose: “Suo fratello sta un po’ meglio. Credo che lo tratterremo ancora quattro giorni, forse cinque, non di più. Piuttosto, come sta sua mamma? Ha dormito stanotte?”. Trasalii e arrossii, come se la dottoressa sapesse che avevamo dormito assieme, e confermai che sì, mia madre aveva dormito, almeno per quel che mi era parso. La dottoressa sembrò apprezzare il mio modo di esprimermi accorto e mi chiese dove si trovasse ora mia madre ed ebbe un altro moto di soddisfazione quando le dissi che era dal parrucchiere e ce l’avevo mandata io e così avevo approfittato per andare là, a sua insaputa. “Bravo! Ecco, mi raccomando, non le dica che è venuto qui da me” borbottò con aria complice. Si aggiustò sulla sedia con fatica. Era corpulenta e legata nei movimenti ma in tutta la sua grave persona c’era una grazia che mi fece pensare che da giovane doveva essere stata magra e bella. La sofferenza era arrivata dopo e oltre ad appesantirla le aveva imposto quello sguardo vitreo e quel tono di voce assertivo, carico di aggressività. Mi si fece da presso e mi sussurrò, come se cospirassimo: “Ma soprattutto ci tenevo a consigliarle di seguitare a farsi i cazzi suoi come ha sempre fatto…”. Quasi saltai sulla sedia. Dunque anche lei mi considerava un bieco egoista! Non mi diede il tempo di proferire parola e riprese a parlare: “Sì, ho inquadrato un po’ la sua situazione. Quando suo fratello è stato ricoverato sua madre ci ha raccontato qualcosa, non molto per la verità, è un soggetto reticente. E la primaria, la signora che era qui con me ieri, naturalmente le ha retto il gioco alla grande, lei è di tutt’altre vedute dalle mie, come ha avuto modo di sentire, ed io, per motivi che può facilmente immaginare, ho dovuto starmene zitta. Ma, combinazione, lei oggi ritorna da solo e mi trova che sono sola anch’io e perciò ne approfitto senz’altro per parlarle liberamente e, se mi permette, di darle due dritte. Sua madre ha detto che lei lavora tanto, si è sposato da poco, ha una figlia piccola, e da quando è sposato si è allontanato…”. La interruppi quasi gridando e spiegai che non avevo affatto rotto i ponti con mia madre, le telefonavo almeno una volta la settimana, mi sembrava giusto ed equilibrato così. Poi aggiunsi che mia madre e mio fratello potevano venire a trovarmi quando volevano, non glielo avevo proibito, erano loro a farsi vedere di rado! La dottoressa mi ascoltò sorridendo benevola, annuì con vigore quando dissi “equilibrato”, e ad un tratto mi fece cenno di non agitarmi troppo e si riprese la parola: “Ma lei ha fatto benissimo a “distaccarsi”, anzi, per meglio dire, “dissociarsi”. Mi guardò dritto negli occhi e stavolta non distolsi lo sguardo, anzi la guardai con gratitudine. Il suo tono allora divenne più complice: “Io non sono pietosa, perciò le dirò una cosa che certo non le farà piacere, ma che credo le possa giovare per comprendere la situazione e dunque agire per il meglio. Quella dove ha avuto la ventura di nascere è la classica famiglia da manuale. Quindi seguiti senz’altro a secondare il suo istinto di sopravvivenza, se non vuole che la maledizione continui anche nella famiglia che si è creato per fuggire da quella di origine. Un classico anche questo. Lei ora è preoccupato perché non ha la più pallida idea di cosa sia successo e cosa succederà d’ora in avanti. Quando vi diciamo la diagnosi reagite tutti alla stessa maniera, come se una tegola vi fosse caduta sulla testa. Anche se le cose andavano già malissimo, andavate avanti sulla stessa strada, convinti che andassero nel migliore dei modi. Occultavate la verità. Per pietà, se così vogliamo chiamarla, oltre che, naturalmente, per la vergogna sociale, per la tenace ostinazione di volersi pensare normali. Il fatto grave è che quando il malato arriva qui è l’ultimo atto e non c’è più niente da fare…”.
“Ah, ma allora non è curabile?” dissi articolando a fatica le parole. Mi sentii mancare, dovevo avere la massima a 60. La dottoressa mi rivolse un’occhiata che mi parve di amaro e sincero dispiacere: “Vede, se ce lo aveste portato quando aveva sedici anni, forse, dico forse, avremmo potuto tentare qualcosa; ma a trentacinque anni, capisce che la malattia è incancrenita…”. “Ma qual è la causa?”.
Lei sospirò, ancora più malinconica. “Devo dirle, purtroppo, che sua madre è schizofrenogena. Naturalmente, non è che sia stata solo lei a ridurre suo fratello in quello stato, e comunque il danno non lo ha fatto a bella posta. Ma parliamo un po’ di suo padre. Era un alcolista funzionale, vero?”. Trasalii. Ora mi aspettavo che venisse fuori qualunque orrore. La dottoressa continuò, avevo l’impressione che si sgravasse da un peso: “Sua madre ci ha detto che lui andava tutti i giorni a bere e a giocare a carte con gli amici e tornava a notte fonda. Però al mattino, come se niente fosse stato, si alzava, si lavava, si vestiva di tutto punto e andava a lavorare, bello sobrio. E così ha fatto per tutta la vita e perciò è morto prematuramente, vero?”. Non potei che annuire. “Insomma, a casa con voi c’è stato poco e questo è il guaio. Sa perché la presenza del padre è importante? Per proteggere i figli dalla madre. E viceversa, naturalmente. Ma sua madre che faceva? Mica vi picchiava, anzi? Vi faceva fare quel che volevate, si preoccupava che foste ben nutriti, vestiti, che faceste i compiti, ah, no, i compiti no, ché quelli vi contrariavano! E appena tiravate uno starnuto vi metteva a letto e chiamava il medico, vi faceva stare a casa più giorni del dovuto, in modo da farvi guarire al meglio, e voi ovviamente ci marciavate, le giornate si susseguivano come se il tempo non passasse. Perché sa qual è il tratto più distintivo della casa dello schizofrenico? Che non accade mai nulla, l’elettroencefalogramma è piatto; e se accade un qualsiasi cambiamento esistenziale, ecco che si scatena l’ansia, come incombesse la morte. Matrimoni, nascite, avanzamenti di carriera, sono tutte calamità per la casa dei morti…”.
Mi passarono ancora nella mente tutte le scene di vita quotidiana della mia infanzia e pensai con più convinzione e timore di essere anch’io rimasto vittima di quel tragico sortilegio. “Mi domando se…”. La dottoressa non mi diede il tempo di concludere la frase che mi disse energica: “Vuol sapere qual è la differenza fra uno come suo fratello e noi? Che, a differenza di lui, che dorme fino a mezzogiorno e dopo che si alza, invece di uscire, resta rintanato in casa a rimuginare sulle oscure trame ordita dai suoi nemici per eliminarlo, noi ci alziamo tutte le mattine e andiamo fuori, a lavorare e ad incontrare gente, abbiamo una qualche vita sociale, insomma. Finché c’è questo, anche se pure noi siamo tutti matti, chi più chi meno, possiamo starci dentro. Vede, prima di parlare di soggetti malati, dovremmo parlare di famiglie malate, di società malata. La nostra società è schizofrenica…”. Rimase come sospesa nel tempo e nello spazio e credetti che sarebbe durato in eterno, ma dopo qualche istante si riprese: “Perciò, le dico di non preoccuparsi, il solo fatto che lei si ponga il dilemma è un buon segno. In suo fratello, invece, manca totalmente la coscienza di malattia, è arrivato qui in pieno delirio. Cos’è il delirio? Quando senti le voci”.
“Ma non come nella “Carezza della sera”?” chiesi ridendo nervosamente e lei sorrise malinconica: “Magari”.
La incalzai disperato: “Ma cosa si può fare!”, la dottoressa sospirò e rispose: “Eh, cercheremo di fargli continuare a vivere come più gli piace, solo questo possiamo fare. Non sarà una meraviglia, ma almeno assicureremo a lui e a tutti voi, specialmente a sua madre, una situazione vivibile…”. Le dissi che mia madre mi aveva detto che non voleva più riprenderselo in casa e pensavo stesse valutando l’eventualità di mandarlo in comunità e lei scosse la testa con sguardo scettico e replicò: “Credo che invece se lo riprenderà. Lei ormai ha la sua famiglia, può starle dietro per qualche giorno, poi deve tornare a casa sua e sua madre lo sa bene, anche se non le piace questa realtà, è abbastanza intelligente da accettarla. Il fatto che nell’immediato non voglia più vederlo è normale, ma ben presto si accorgerà di non poter fare a meno di quel suo figlio che si è tirata su apposta così. Diciamolo chiaro: questi due sono una coppia, vivono in simbiosi, dormono nello stesso letto, non si separano un solo minuto. Sua madre poi mi ha raccontato che suo padre è morto proprio l’anno dopo in cui lei è andata in pensione: lei capisce che si era fatta il progettino di passarsi finalmente tutte le giornate assieme al suo consorte, almeno per vent’anni, dopo che per altrettanti è stata sveglia ad aspettarlo tutte le notti. Ha avuto una bella botta…”. Trasalii per l’ennesima volta, ricordando che alla morte di mio padre lei aveva urlato, disperata, addolorata, ma anche risentita: “Se n’è voluto scappare!”,La dottoressa continuò: “Sapesse quante ce ne sono di coppie così: madre e figlio che dopo la morte del padre vivono more uxorio. Il mammismo è la piaga dei paesi latini, invece nei paesi nordici abbiamo i suicidi, Jack lo squartatore e quelli che sparano sulla folla”. Si alzò e pur nella sua pesantezza mi sembrò maestosa, forse anche per la sua fulgida criniera leonina. “Mi raccomando, continui sempre a suonare…” proferì con aria sibillina, guardandomi dritto negli occhi, mentre richiudeva la porta. Appena uscii dal padiglione il telefono trillò: un altro numero sconosciuto. Era Marina: “Pronto, come stai? Mi fa piacere. Ti sei stancato tanto ieri? Ti ho visto un po’ in crisi, forse sei preoccupato per qualcosa… Sono un’istintiva, capto i sentimenti di chiunque mi stia vicino, figurati di quelli a cui tengo. Ma volevo complimentarmi una volta di più e perciò mi sono permessa di farmi dare il tuo numero da Ennio, anche lui ti saluta tanto. Ieri sei stato semplicemente strepitoso. Da una parte mi dispiace che non si sia creata l’occasione per ascoltare un pezzo fatto da voi, ma dall’altra è stato meglio così, meritate una cornice ben più degna dell’Antica Corte e degli Anni belli, l’ho sempre detto a Ennio, ma lui si ostina ad andarci. Gesy, poverina, ha una grande volontà, ma ha dei grossi limiti ed io vorrei tanto che lavorassimo solo a certi livelli. Tu non sei solo bravo, Piero, sei un signore, e sei soprattutto umile e l’umiltà è propria dei grandi artisti…”. La interruppi osservando che l’umiltà non c’entrava nulla con l’essere grandi artisti e lei replicò quasi piccata: “No, in questo ti sbagli, sei troppo modesto. Va bene avere coscienza dei propri limiti, va bene dire le cose così come stanno, però ora non esagerare. Prima o poi a Ennio gli passerà la scimmia di andare agli Anni belli e vedrai che faremo delle esperienze bellissime, a Milano, a Montecarlo. Ma non solo nei grandi alberghi e ristoranti, ci esibiremo anche nei teatri! Credimi, ce la faremo, guai a fare morire i nostri sogni! Adesso purtroppo devo lasciarti, il dovere mi chiama, ma volevo ricordarti che ieri, durante quel bel pranzetto, ci siamo presi tutti e tre l’impegno di suonare assieme! Sappi che abbiamo pensato di lasciare a te il grosso del cachet, perché suonare è la tua unica professione e noi facciamo musica per passione, per sentirci vivi, mica per guadagnare. Ti abbraccio…”. Non mi ero ancora ripreso dallo sconcerto, che il telefono squillò ancora. Mia moglie. Voleva solo sapere se stavo bene, mi disse che mi aveva ripetutamente cercato ma aveva trovato la linea sempre occupata. Le dissi semplicemente che avevo ricevuto delle telefonate di lavoro, spiegare nel dettaglio era impossibile, lo avrei fatto quando ci saremmo finalmente rivisti e avremmo avuto tutto il tempo di parlare, come Odisseo e Penelope. E ne avevo di cose da raccontarle, solo la faccenda delle 800.000 lire trovate nei pressi del portone di casa era qualcosa di inverosimile. E come Odisseo e Penelope, finalmente assieme, dopo esserci raccontato tutto, ci saremmo addormentati felici. Ma quando sarei tornato a dormire a casa mia? Mia moglie stessa mi consigliò di dormire da mia madre anche quella notte, visto che mia madre era ancora bouleversé. Arrivai a Recco che la parrucchiera stava chiudendo e mia madre, sulla soglia, mi aspettava in preda all’angoscia. Da che mi ricordavo mi aveva sempre aspettato in preda all’angoscia. Al ritorno da scuola, o dai giochi con i compagni, dalle uscite serali, anche quando ero ormai maggiorenne. Aveva la ragione la dottoressa, era sempre andata malissimo, solo che per tirare avanti avevamo fatto come se andasse nel migliore dei modi. Anche perché quello era l’unico modo per le nostre risorse. Entrammo in uno dei migliori ristoranti della capitale gastronomica della Liguria e mangiammo ravioli di pesce e gamberi alla griglia, innaffiati con una buona Bianchetta. Cominciai a raccontarle dei progressi mia figlia: si era subito abituata all’asilo, ci andava volentieri, non aveva mai pianto e consolava la sua amichetta Francesca che piangeva sempre. E quando era a casa cantava tutto il tempo, imparava le canzoni a menadito, era molto intonata. E mia moglie aveva vinto il concorso ed era diventata funzionario! Mia madre, anche se mi guardava, mi dava l’impressione di non udirmi, si guardava intorno come se temesse un’aggressione e ogni tanto mi diceva con tono spazientito: “Non parlare, mangia! Mangia! Mangia! Spicciati che si fredda e diventa uno schifo!”. Per tutta il tempo che avevo vissuto con lei non aveva fatto altro che dirci mangia! Perché stupirmi che continuasse a farlo, come se non fossi cresciuto? Mi ricordai che, a pranzo, mio fratello si metteva a raccontare quel che aveva fatto a scuola e lei lo fissava muta e all’improvviso gli diceva, gelida e imperiosa: “Mangia” e lui cominciava a dimenarsi sulla sedia, scalciava e urlava, e mia madre sentenziava: “È pazzo”. Da piccolo proprio non capivo quell’ossessione per il mangiare, nonostante che tutti in famiglia non facessero altro che parlare della fame nera che avevano patito in tempo di guerra: “Tu che vuoi capire, se nato nell’opulenza! mi dicevano con tono di biasimo. Ed io quell’ossessione l’avevo capita a vent’anni, quando avevo letto la frase di Elsa Morante, autrice amatissima da mia madre: “la frase d’amore, l’unica, è: hai mangiato?”. Come darle torto, data la vita che aveva fatto? Aveva perso suo papà quando aveva otto anni, era morto di malattia, erano quattro sorelle e la madre si era ammalata, col tempo non aveva più potuto, o voluto, camminare. Un mondo di donne contro le asperità di questa valle di lacrime. Anche mio padre era rimasto orfano di padre da ragazzo, anche lui non aveva avuto un buon rapporto con la madre. Non si poteva lottare contro la gigantesca, intricata e insondabile trama dell’universo. Eppure quel giorno, sarà stata la bontà del cibo, trovai il modo di farla sorridere, con le mie battute e i miei giochi di parole. “Beato te, che hai questo bel carattere!” mi disse, lamentosa ma divertita. Che avessi un bel carattere era pure una cosa che aveva sempre detto e capii finalmente che dovevo mancarle davvero tanto. Quando il pranzo terminò, mi disse guardandomi delusa: “È già tardi…”. Volevo pagare io, ma si oppose: “Tutti quei soldi tieniteli da parte, che ci paghi la pigione di casa!”. Trasalii: dunque sapeva che avevo trovato tutti quei soldi davanti al portone, eppure non le avevo detto niente in merito! Che ce li avesse messi lei? Fui sul punto di chiederglielo, ma non ebbi il coraggio. Invece le dissi che l’avrei riaccompagnata e sarei andato a casa mia, avrei cenato là e poi sarei tornato a dormire. Lei parve umiliata e offesa da quella proposta, allora decisi di regalarle qualche minuto in più del mio tempo e la portai a vedere la vicina Camogli. Ma dopo poco mia madre mi disse che era stanca e ritornando a Recco, quando giunsi all’incrocio con l’Aurelia, mentre stavo per passare lo stop, fummo presi in pieno da un motorino. Prima sentii un forte stridore di pneumatici, poi la macchina sobbalzò e ci fu un boato spaventoso. Subito mi sporsi dal finestrino e scorsi la ruota di dietro del motorino, saltai fuori e mi trovai davanti, distesa sull’asfalto, una ragazza con tutte le gambe e le braccia escoriate che mi guardava con i suoi occhi enormi azzurri, il viso buffo, così incorniciato dal casco: “Ti sei fatta molto male?!” le chiesi terrorizzato: “E ora come faccio a dirlo a mia madre?” mi rispose sgomenta. La rialzai, poi issai su il motorino e lo appoggiai ad un albero: era tutto scorticato e la ruota davanti si era deformata, prima dell’impatto aveva strisciato sull’asfalto per qualche metro e terminato la sua corsa contro la gomma anteriore sinistra della mia macchina, che invece non aveva danni e mi pareva impossibile, dopo quello spaventoso rumore di ferraglia.
Mi venne in mente che quello era il mio secondo incidente, il primo lo avevo fatto con una vecchia carretta usata, qualche giorno dopo la morte di mio padre. La ragazza si tolse il casco e le cadde una cascata di capelli rossi sulle spalle. Era molto bella: “Come ti chiami?”.“Vittoria!”. “Sali, ti porto all’ospedale” le ordinai con un’autorevolezza piovutami chissà da dove e la feci accomodare dietro. Mia madre guardava davanti a sé, sembrava una statua di sale. Durante il tragitto Vittoria cominciò a piagnucolare: “Stavo andando a Rapallo, dal mio fidanzato! Come faccio ad avvisarlo che non arriverò? Mia madre non voleva che prendessi il motorino, abbiamo litigato, poi alla fine l’ho spuntata, adesso mi dirà che sono una frana e non me lo farà riparare! Che estate di merda!”. Nello specchietto retrovisore vedevo il suo visino increspato dall’angoscia e le dissi con tono complice e rassicurante: “Non preoccuparti, dirò ai tuoi che è stata tutta colpa mia, non andavi forte, sono io che ho sconfinato oltre la linea dello stop, lo dirò ai tuoi, adesso che arriviamo all’ospedale gli telefoniamo”. A quelle parole uscitemi di getto, mia madre si voltò lentamente a guardarmi con un’espressione da sfinge. Consegnai Vittoria ai medici del pronto soccorso e telefonai ai suoi genitori che arrivarono di lì a poco; due belle persone, poco più grandi di me, molto gentili. Lui mi disse che era medico. Fui perfino eccessivo nel prendermi le colpe, io e la madre scrivemmo tutti i dati sul cofano della mia macchina, lei annotava con diligenza con la sua calligrafia tonda, e quando scrivemmo tutto subito corse nell’ospedale. Guardai il sole, un disco d’acciaio nel cuore del meriggio; non me lo sapevo spiegare, ma in quel momento ero felice. “Niente di rotto?” domandai ansioso a Vittoria quando la vidi che usciva assieme ai suoi, con vistose fasciature alle gambe e alle braccia. “Niente di rotto” disse lei sorridendo, poi, approfittando che i suoi stavano parlando tra loro, mi strizzò l’occhio e mi sussurrò: “Mi ha salvato bene…”. Li salutai e li seguii con lo sguardo finché non si infilarono in macchina, poi tornai alla mia e finalmente mia madre si voltò a guardarmi e mi disse in tono grave: “Ti sei preso tutta la colpa, ma è stata quella scioccherella a perdere il controllo del motorino”.
A sentirla parlare così sentii un moto di ribellione e una voce parlò in me: “stai attento a non mettere sotto la tua Vittoria…” E così parlai a mia madre: “Che dici, sono io che ho sconfinato fuori dalla riga dello stop. So quello che dico, non sono mica pazzo come hai sempre sostenuto”. Lei trasalì e sgranò gli occhi come colpita da un sasso, e tacque serrando le labbra. Quando mi fermai davanti alla vecchia casa, prima di scendere, mi disse in tono risentito: “Mi raccomando di non venire tardi anche stavolta. Ieri mi avevi assicurato che saresti venuto alle due e invece erano le tre quando ti ho visto sotto al portone. Sono stanca, sono anni che tribolo e tuo quel campione di tuo fratello mi ha sfinito…”. Fu allora che le dissi: “Sei tu che lo hai voluto così!”. Rimase annichilita più di prima, dopo qualche istante fece un gesto impetuoso, come se volesse vibrarmi uno schiaffo, infine sibilò: “Non stare a venire, stattene pure a casa tua, che io sto meglio da sola, e poi non sarà per molto, ché quel campione torna tra qualche giorno”. “Ah, non lo manderai in comunità!” gridai incredulo. “È mio figlio, mica posso abbandonarlo, vai” replicò gelida. Da quel momento non mi avrebbe mai più parlato, se non per comunicarmi le cose pratiche e a monosillabi. La vidi andare verso il portone con passo ancora più claudicante del solito e pensai che lo facesse apposta per acuire il mio senso di colpa, ben sapendo che la stavo guardando. Eravamo in lotta da sempre e solo adesso ne ero consapevole pienamente. “È mia madre” mi dissi incredulo, prima di avviarmi verso casa mia. Telefonai al mio amico manager e tra le varie mie disgrazie gli raccontai di come mi trovassi al centro di una aspra contesa in cui da una parte mi si incensava e dall’altra mi si minacciava. Lui mi disse che era una situazione solo vantaggiosa e dovevo farmi valere, secondando il miglior offerente. “Turati il naso e fai i tuoi interessi. Io aspetterei di fare la serata di giovedì e vedere come va, prima di decidere cosa fare sabato, ma penso che andare alla Serenissima sia meglio, Ludo andrà da solo e Gesy risparmierà 100.000 lire. Protesteranno per principio, ma all’atto pratico saranno soddisfatti. Questa Mary non ragiona in modo peregrino, mi pare, anche se ti trasmette un’ansia terribile, la sento io da qua e non ho mai visto quella donna. Però tutti i lavori presentano dei pro e dei contro, quindi prendila con filosofia, Pierin, chi meglio di te può farlo?”.
Quel giovedì, pur essendo settembre, era una giornata novembrina. Il cielo si era annuvolato già dal giorno precedente, poi durante la notte aveva cominciato a piovere e da quel momento non aveva mai smesso un minuto. Tutte le strade erano mezze allagate e tirate a lucido, l’aria odorava forte di ozono, lungo i marciapiedi scorrevano rigagnoli limacciosi, lo sterco dei piccioni si scioglieva sui cornicioni e sulle statue solinghe. Passai quasi tutta la mattina a letto, ché quel tempo è sempre stato soporifero per me. Alle dodici e mezza però dovetti alzarmi, ché arrivò puntuale la telefonata di Mary. Ormai mi chiamava tutti i giorni, voleva sapere come stavo, se avevo risolto i miei problemi. Anche Marina ogni tanto si faceva viva, ma scriveva messaggi. “Io ed Ennio stiamo provando e ti pensiamo” e altre stranezze del genere. Però Mary era ben più invasiva: era curiosa come una scimmia e piccata per via della mia reticenza. Soprattutto era ossessionata dal fatto che avessi la serata all’Antica Corte. “Non ti stancare troppo, ricordati che domani devi venire a casa nostra per fare le prove con Bruno. Non vedo l’ora di sentirvi. Secondo me sarebbe stato meglio provare anche oggi, insisterei a farti venire, se non fosse per questo schifoso nubifragio. È importante che proviate tanto, sabato è la vostra prima serata, guai a fare brutta figura! Lui è là in casa, l’ho sentito già tre volte, mi sta preparando il pollo marinato, ti saluta. Chiamalo magari, se ti va, ti costa solo cento lire, lui è contento quando lo chiamano, non vede mai nessuno alla mattina. Mi sa che oggi ti telefonerà la Gesy per dirti di non andare, ché con questa pioggia è sicuro che non verrà nessuno, figurati, non sarebbero venuti con il tempo bello. Fossi in te non mi presenterei neppure e verrei da noi a fare le prove con Bruno; se vai là, rischi di andarci per niente, perché è chiaro che se non c’è gente quella non ti paga. Comunque fai come vuoi, io ti ho avvertito, sono una donna concreta e te lo dico per il tuo bene, a me non me ne torna in tasca niente. Salutami tua moglie, che brava che dev’essere, non è facile vivere con un artista, io ne so qualcosa…”.
Finalmente riagganciò e mi chiesi come mai ora potevo sopportare questo ed altro senza accusare la minima insofferenza, anzi provando quasi una specie di strana gioia maligna. L’ultimo screzio con mia madre era stato così devastante che ora qualunque altra cosa mi sembrava una quisquilia e inoltre era come se succedesse ad un altro e non a me. Era precisamente questo “dissociarsi”? Intanto mi guardavo intorno, come un ladro in attesa di compiere un colpo. Sotto quella pioggia torrenziale Via Smirne mi appariva più dimessa che mai. Indugiai ancora qualche minuto nel calduccio della macchina, prima di buttarmi in quella tormenta, vedevo le folate d’acqua contro la luce dei lampioni e capii che l’ombrello non mi sarebbe servito a niente. Gesy venne ad aprirmi solo dopo il terzo squillo, vidi il suo viso dipinto come una marionetta all’altezza della cintola, perché stava un gradino sotto sulla scaletta che scendeva giù nel locale: “E che fretta tieni! Un poco di pazienza!” mi gridò, ma quasi non la sentii, perché il rumore della pioggia era troppo forte. Non c’era nessuno e lei aveva acceso metà delle luci e c’era un’atmosfera da omicidio. “Mettiti a suonare, ché così magari ti sentono da fuori e si incuriosiscono e bussano e entrano. Io vado a telefonare”. Così parlò Gesy e sparì dietro la tenda. Mi sedetti e sollevai il coperchio, ma aspettai a iniziare perché solo allora feci caso al rumore della pioggia che scorreva dappertutto, uno scroscio impressionante, non avevo mai udito niente del genere. Mi venne in mente che quel locale era seminterrato, situato in una zona a forte rischio alluvione ed ebbi la visione di un fiume d’acqua e di fango che, dopo aver sfondato la porta d’ingresso, si precipitava in cascata giù dalla scala. Scacciai quell’immagine orribile e iniziai a suonare, “The Entertainer”, Gesy mi aveva detto che era allegra e speravo che potessimo rallegrarci entrambi. La tirai avanti il più possibile, ogni volta che la finivo la ricominciavo con un modo diverso, a volte scoppiettante, a volte lenta come una ballata blues. Era una colonna surreale in quell’atmosfera da incubo, ma non riuscivo a smettere, temevo che in quel caso sarebbe successo qualcosa di brutto. Non so quanto tempo passò, poi ad un tratto Gesy sbucò da dietro la tenda e mi gridò in malo modo: “Meh, mo’ finiscila, che mi duole il capo!”. Quindi sparì di nuovo dietro la tenda, proprio come una marionetta dei pupi. Mi alzai dal pianoforte e mi accorsi che non mi ero ancora levato il giubbotto. Decisi di tenerlo, c’era freddo in quella cantina che la ricerca del profitto aveva trasformato in locale notturno. Feci per sedermi su una poltrona e mi accorsi che lungo il muro scorreva un sottile rivolo d’acqua e la parete era tutta macchiata, umida e gonfia. Fuori la pioggia continuava a cadere più forte di prima e non si sentivano altri rumori provenire dalla strada. Sul telefono mi arrivò un messaggio di Mary: “non è venuto nessuno, vero?”. Non risposi, spensi il telefono e fui preso da un vortice di pensieri. Pensai a mia moglie, stava leggendo un libro e tra poco avrebbe spento l’abat-jour; mia figlia invece già dormiva tranquilla nel lettino, sognava di Alice stringendo a sé il gatto Astratto. Mia madre era a letto da sola e aspettava con ansia il ritorno di mio fratello figlio unico. Le ferite di Vittoria pian piano si stavano rimarginando. Mi addormentai e quando mi risvegliai trasalii e guardai l’orologio: erano le undici. Aveva smesso di piovere, in luogo dello scroscio sentivo un sordo borbottio. Gesy era sempre al di là, a parlare al telefono: “Sì, questa è la terza volta che mi opero. Non ne posso più. E tu, ti sei operata? Ah. E quando? Tra un mese. Eh, madonna mia. E quello là sta. Stasera piove che dio la manda, mi sa che pure da lui non ci è andato nessuno. Qua pure niente, ma mo’ vediamo come va. Che dobbiamo fare, stiamo in braccio a dio. Meh, va bene, adesso vado di là. Fammi sapere, ciao, bella, ciao…”. Mi alzai e mi misi in guardia, ma comparve solo dopo parecchi minuti, mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, poi, riavutasi, mi disse: “Senti, mi sa che qua non viene nessuno. Vattene pure a casa, ci vediamo sabato” le dissi che per me andava bene e poteva darmi le mie spettanze. Lei rise: “E quali spettanze ti debbo dare, non ho incassato un centesimo. Sabato, se viene qualcuno e incasso, ti pago pure questi di stasera. Però ti do cinquanta, mica cento! Se è andata male per me è andata male pure per te, facciamo le cose con giustizia”. Le osservai che l’altra sera, agli Anni Belli, il locale era stracolmo ma Ennio e Massimo avevano preso il solito compenso. Lei trasalì come punta da una vespa e replicò aggressiva: “Ma che, mi fai i conti in tasca, fai il sindacalista tu? Fatti i fatti tuoi. Tanto ci vuole a capire che è nel tuo interesse che il locale vada bene? Se qua si mette a funzionare tu guadagni come se avessi il posto fisso, non è che vieni qui da solo, non porti nessuno, suoni un poco il pianoforte, ti fai una dormita e io ti devo pure pagare”. Non ebbi il tempo di pensare una risposta che suonò il campanello e il suono fu così violento che entrambi sobbalzammo. Gesy aprì e vidi affiorare dal buio le facce di Ennio e Ludo, quest’ultima con un sorriso a trentadue denti stampato sopra. “Ma quanta bella gente che c’è stasera! Tutti a sentire Pierin, il miglior pianista sulla piazza di Genova!” gridò Ludo ilare. Ennio invece sembrava preoccupato. Gesy subito lo apostrofò: “Ennio, ma vedi a questo, mo’ vuole pure i soldi. Ma io non ho incassato niente!”. Ludo continuò a sghignazzare, mentre Ennio mi guardò pieno di costernazione. A quel punto parlai io: “Io faccio il pianista e se lavoro voglio essere pagato”.
Gesy allora ribadì che era nel mio interesse abbozzare, ché se il locale col tempo avesse decollato, sarei stato ricompensato anche più del pattuito ed io replicai stancamente: “No, preferisco essere pagato adesso, tanto questo locale è destinato a fallire”. Tutti e tre trasalirono e Gesy tirò fuori da chissà dove un cornetto rosso e me lo agitò davanti al naso urlando: “Tiè! Tiè!”.
Ludo era in estasi, Ennio invece sembrò sul punto di piangere. Poi Gesy sparì di nuovo dietro la tenda e quando riapparve brandiva un biglietto da 50.000 lire. Quasi me le lanciò in faccia. “Io questi ti do, e basta! Se mai parli con lui, che è il mio avvocato! Te ne puoi andare!”. Ludo intervenne: “No, ma Pierin è solo un po’ attaccato ai soldi, ma poi è bravo…”.
Gesy gli intimò di piantarla, io ne approfittai e afferrai quella banconota come se stessimo giocando a ruba bandiera, poi dissi ironico: “Dal cattivo pagator prendi quello che puoi”.
Mi girai, aprii la porta e uscii. Finalmente aveva smesso di piovere: respirai a pieni polmoni e stavo per aprire la portiera quando mi sentii toccare il braccio. Era Ennio: “Scusami Piero, sono veramente addolorato. Ti prego..”. Mi porse un biglietto da 50.000 lire. “Ma non è giusto! Protestai”. “Piero ti scongiuro…”. Afferrai la banconota, entrai in macchina, avviai il motore e partii. La città era lucida e deserta, le luci rosse degli stop delle automobili che mi precedevano creavano un caleidoscopio sul parabrezza pieno di goccioline. Accesi lo stereo e mi sintonizzai su Radio Musica Italiana: c’era Gianni Morandi che cantava: “ognuno pensa solo a sé stesso, scende la pioggia ma che fa…”.
Si era rimesso a piovere, in effetti. Arrivato a casa mia, nonostante il fardello che mi portavo dentro, finalmente, anche se per poco, trovai pace e conforto.