Uno degli argomenti più frequenti in questi giorni, volti ad evitare il raggiungimento del quorum nel referendum sulla giustizia, è che si tratta di questioni “specialistiche”, che avrebbero meritato di essere affrontate e risolte in Parlamento e non con un referendum.
Insomma, sono “cose” da democrazia rappresentativa e non da democrazia diretta.
Questo ragionamento, anche se molto diffuso, non è convincente.
Da un punto di vista formale questi referendum sono stati ammessi dalla Corte costituzionale e dunque il popolo ha tutto il diritto di esprimersi su di essi.
Da un punto di vista distanziale si può dire che se il Parlamento non è riuscito in trenta anni ad affrontare il problema pare del tutto giustificato che ci provi il popolo.
Dove non riesce la democrazia rappresentativa è giusto che ci provi quella diretta, nel modo in cui la costituzione lo consente e cioè in questo caso con un referendum abrogativo.
Un esito positivo del referendum darebbe, del resto, un forte impulso al Parlamento ad agire, si spera, nella direzione indicata dal popolo italiano.
Insomma, questa è una occasione da non perdere se si vogliono cambiare le cose.
Chi non andrà a votare dovrebbe riconoscere che è d’accordo con l’esistente. E dopo quello che è venuto a galla col caso Palamara, appare molto difficile essere d’accordo con l’esistente.
Al di là dei diversi quesiti referendari La posta in gioco in questo referendum è molto alta.
Un’ultima occasione per ridurre il potere delle procure, l’arbitrio dei pubblici ministeri oppure alla dicastocrazia la democrazia.
Se non ora quando?
Paolo Becchi
(Il prof. Paolo Becchi è ordinario di Filosofia del Diritto all’Università di Genova)