Ha esordito da professionista a 17 anni, 9 mesi e 18 giorni. Praticamente un bambino. E difatti proprio Bambino lo chiamava Giampaolo, il suo primo allenatore alla Sampdoria.
Ma Ronaldo Vieira oggi è cresciuto. «Ne ho ancora di cose da imparare però», ci racconta il centrocampista in una lunga intervista esclusiva all’Official Media. «L’anno scorso dovevo ambientarmi – dice -, ma adesso sto ottenendo sempre più spazio e di questo sono contento. Di Francesco mi ha aiutato, mi ha detto: tu sei più forte di quello che pensi e così ho preso più fiducia in me stesso. Con Ranieri possiamo fare bene: sta lavorando molto sulla nostra testa. Il calcio non è solo tecnica o tattica, c’è un grande aspetto mentale».
Viaggio. Se ti chiami Ronaldo e tuo fratello gemello Romario è inevitabile che nel tuo destino il calcio c’entri qualcosa. «È stata mia mamma a darci questi nomi – rivela -, siamo nati nel 1998 e quell’anno il Brasile era fortissimo. Lei da giovane giocava a pallone e allora ha scelto di chiamarci così. Forse già lo sapeva che saremmo diventati calciatori». Una vita in viaggio: infanzia in Guinea Bissau, primi calci in Portogallo, adolescenza in Inghilterra, adesso l’Italia. «Io mi sento africano e allo stesso tempo europeo – spiega Ronnie -, vorrei però tornare un giorno in Africa e aiutare i bimbi che sono là».
Buu. Nella vita di un giocatore i momenti belli non si contano. Ma questo non vuole dire che quelli brutti non ci siano. A volte sono perfino bruttissimi. Tipo quando sul numero 4 sulla schiena sono piovuti degli ignobili buu. «Voglio pensare che lo abbiano fatto perché stavo facendo qualcosa di buono in campo – premette -, perché queste cose non devono più accadere. E invece stanno succedendo sempre di più: non solo in Italia ma in tutta Europa. Bisogna dire basta».