Una data storica quella del 14 gennaio 1900: al teatro Costanzi di Roma si rappresenta la prima della Tosca, opera in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, tratta dal dramma omonimo di Victorien Sardou, autore a tinte fosche prediletto nella Parigi di fine secolo. Tra gli spettatori la regina Margherita.
Spettacolo applaudito, ma con qualche riserva, soprattutto sul testo, definito dalla critica brutale, sadico e volgare.
Puccini aveva in mente il personaggio di Tosca dal 1889, da quando aveva assistito, a Milano, al dramma di Sardou interpretato da Sarah Bernhardt: avrebbe forse preferito un finale meno truculento, con una Tosca che impazzisce piuttosto che finire suicida. Ma gli autori si mostrarono irremovibili e il Nostro, in genere condiscendente e comprensivo verso la condizione femminile, si rassegnò commentando “La vogliono morta a tutti i costi quella povera donna!”
La vicenda è ambientata nel 1800 a Roma, nella storica e centrale chiesa di Sant’Andrea della Valle. Il pittore Mario Cavaradossi dipinge una Maddalena bionda, come la marchesa Attavanti, da lui ritratta, involontaria modella, mentre pregava. Il dipinto suscita la gelosia della sua amante di bruna bellezza, la cantante Tosca, la quale vorrebbe, come ulteriore prova d’amore, una Maddalena dagli occhi bruni.
Il pittore nasconde un console dell’ex Repubblica Romana, fuggito da Castel Sant’Angelo e ricercato dal potente capo della polizia Scarpia, che sfrutta la gelosia di Tosca per conoscerne il nascondiglio.
Mario è arrestato, torturato e condannato a morte. Tosca, disperata e insidiata dal barone Scarpia, volgare figura di ricattatore, finge di accettare le sue libidinose proposte in cambio di una finta fucilazione del pittore e di un lasciapassare per fuggire insieme all’amato da Roma. Ma quando Scarpia le si avvicina lo pugnala a morte.
Quando Mario cade sotto i colpi del plotone d’esecuzione per l’inganno di Scarpia, Tosca si suicida gettandosi da Castel Sant’Angelo.
Opera delle passioni e degli eccessi portati al massimo livello da personaggi memorabili, che l’attuale regia di Andrea Cigni lascia intatti, sottolineandoli con gli sfondi cupi e lividi, nonostante qualche felice, chiaro e magnetico intermezzo dato dallo scorrere delle comparse in abiti religiosi.
La figura di Tosca è un personaggio centrato su un mix di disperato amore e di morbosa gelosia che porta a travisare i fatti (cadendo anche in qualche tranello), preludio di un finale altrettanto eccessivo, impulsivo e disperato.
La dolce donna, vissuta coltivando l’arte e l’amore, nonchè convinte pratiche religiose, ma pur determinata, diventa spietata quando capisce che Scarpia le sta negando di vivere il suo sentimento più puro ed intenso. Si chiede, con un moto d’animo comune e comprensibile, il perchè tutto questo capiti proprio a lei, che mai aveva fatto male ad anima viva.
E non esita ad annullare se stessa quando comprende che il suo sogno d’amore non avrà realizzazione.
Scarpia pare incarnare la modernità sempiterna di chi, credendosi onnipotente, non si fa scrupolo di calpestare sentimenti e pudori per un capriccio passeggero.
Paradossalmente il patriottico Cavaradossi è il meno eccessivo, più sommesso ed umano nella commovente rievocazione della parte fisica, ma ammantata di romanticismo, di un sogno d’amore per sempre svanito.
La musica di Puccini sottolinea le vicende con melodie d’effetto, “Vissi d’arte” , “E lucean le stelle”, come se stesse dipingendo i sentimenti con la musica.
Lo spettacolo del 5 maggio, che vede come protagonisti principali Maria Iosè Siri, Diego Torre e Alberto Gazale, ha rivelato un cast particolarmente affiatato e maturo attraverso un’interpretazione sentita e senza orpelli, culminato nella richiesta del pubblico (soddisfatta) del bis per “E lucean le stelle”.
L’orchestra è sapientemente diretta dal maestro Valerio Galli, applaudito dal pubblico genovese nella direzione del dittico Rapsodia satanica e Gianni Schicchi appena concluso. Tosca resta al Carlo Felice fino al 12 maggio.
Tosca, proprio per le sue passioni marcate, è opera di incisivo effetto catartico.
Catarsi: qual è il significato di questa espressione così ricorrente nel teatro e spesso fraintesa? Si mette in scena una storia, non necessariamente poco frequente, talvolta riguardante normali vicende umane, con l’intento di sollevare il pubblico al di fuori della propria realtà per qualche ora, affinchè si possa riflettere sulle cause soggettive ed oggettive dell’accadimento scenico, puntando più sull’aspetto drammatico che sulla narrativa. Chi assiste guarda necessariamente con sguardo esterno ma con l’emozione di vedersi simile, per cui si mette in condizione di capire meglio il proprio problema e successivamente di estraniarsi, almeno in parte, dall’afflizione. La liberazione avviene quando lo spettacolo e gli attori sono in grado di far uscire dallo spettatore l’angustia, il pathos: ciò può avvenire quando chi assiste è in grado di comprendere pienamente ciò che avviene. Aristotele definisce la catarsi il distacco purificatorio che sopraggiunge nel momento in cui si comprende la ragione nascosta degli eventi.
Come insegnano i maestri orientali, una messinscena troppo violenta non è catartica, ma contaminante: anzi porta con sè grossi pericoli di imitazione da parte di una psiche debole o disturbata.
Il sentimento positivo (che può arrivare alla gioia e alla contemplazione) che apporta la visione di un’opera d’arte aiuta a raggiungere uno stato di obiettività e, perchè no, a far emergere soluzioni nel ripensare la propria difficoltosa situazione contingente.
Elisa Prato