Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo il secondo articolo del Giornale del Piemonte e della Liguria a firma Diego Pistacchi, che attraverso la cronaca dell’interrogatorio di Giovanni Toti (167 domande fatte dai pm) spiega bene la campagna di certa stampa e il quadro del caso politico-giudiziario in cui è stato coinvolto il governatore ligure, messo agli arresti domiciliari per corruzione elettorale martedì 7 maggio, a un mese dalle elezioni europee e amministrative.
“Dopo l’interrogatorio e dopo la memoria difensiva di Giovanni Toti, i fiumi di inchiostro si fanno meno vorticosi. Il titolo è sempre e solo uno:«Spinelli mi finanziava dal 2015». Riferito a ciò che ha detto da Toti ai pm. Un dato di fatto. Non un reato.
Toti però ai magistrati ha detto tante altre cose. Anche a proposito dei finanziamenti di Spinelli è stato molto più preciso. Così come ha segnalato agli inquirenti che non dovrebbe essere difficile – ascoltando tutte le intercettazioni, anche quelle non selezionate dall’accusa – verificare che gli stessi interventi a favore degli imprenditori, il governatore li faceva per chi non lo finanziava e per chi aveva idee politiche anche molto diverse dalle sue.Quindi, in sostanza, intervenire per aiutare gli imprenditori nei rapporti con la pubblica amministrazione, non era corruzione, non era il corrispettivo per i soldi ricevuti a sostegno della sua attività politica.
Come riportato su queste colonne, dall’interrogatorio è quasi del tutto scomparso materiale che ha per giorni campeggiato su molte prime pagine. La storia del Covid, ad esempio. Così come l’aggravante mafiosa, che mai è stata contestata a Toti o ai consiglieri regionali arancioni, ha perso di «fascino» mediatico.
C’è anche tutto un altro filone che sembrava improvvisamente diventato l’ennesima pistola fumante per spingere l’inchiesta della magistratura verso una condanna ineluttabile. I collegamenti e i finanziamenti elettorali fatti da Pietro Colucci, imprenditore attivo nel settore dei rifiuti, hanno fatto funzionare il sillogismo ideale per collegare le discariche (da sempre prospettate all’opinione pubblica come fonte di malaffare) alla corruzione di Toti.
Ebbene, di discariche, di Colucci e dei suoi finanziamenti i pm nel corso di otto ore di interrogatorio non hanno mai fatto alcun cenno. Peraltro, incidentalmente, nei giorni scorsi, era emerso che dalle stesse società di Colucci che gestiscono le discariche nel Savonese, soldi ne sono partiti anche a favore del Pd. In particolare del consigliere regionale Roberto Arboscello (ex sindaco di Bergeggi), che nel 2020, proprio per le stesse regionali su cui si sta indagando su Toti, ha percepito 18mila euro. Nel corso della sua attività politica da consigliere, con atti ispettivi, si è proprio occupato delle discariche gestite dal suo finanziatore.
Come ha avuto modo di spiegare anche a «Repubblica», Arboscello legittimamente sostiene che non è corruzione ricevere soldi da un imprenditore e poi occuparsi dei suoi affari. E infatti i magistrati non lo hanno indagato.
Certo, il passaggio non gioca a favore della campagna accusatoria che in queste settimane è stata sottoposta all’attenzione dell’opinione pubblica. Il problema è che il fatto che le illazioni sulle discariche siano esse stesse spazzatura, neppure prese in considerazione dai pm nel corso dell’interrogatorio, sparisce dalle cronache. La narrazione del voto di scambio con la mafia non regge, il Covid non interessa ai magistrati, delle discariche neppure se ne parla.
Una delle ultime cartucce sparate nei giorni precedenti l’interrogatorio riguardava il passaggio di soldi su un conto descritto come privato di Toti, solo perché intestato a lui personalmente. La bufala più grossa e frutto di forte ignoranza, dal momento che la legge prevede proprio che tutte le spese elettorali passino da un conto corrente dedicato.
Insomma, l’impressione che gli inquirenti concentrino la loro attenzione sulle questioni portuali è ormai abbondantemente diffusa. Ma a concentrare anche l’aspetto mediatico su questo unico punto può riservare sorprese poco felici. Tanto che ovviamente è stato facile verificare – e lo stesso Toti lo ha ribadito nell’interrogatorio come nella memoria difensiva – che anche esponenti di spicco di altri partiti, in specie il Pd, avevano contatti assai simili con gli imprenditori. Lo yacht (e i soldi) di Spinelli, non erano certo un’esclusiva di Toti. Il colpo più duro al castello costruito agli occhi dell’opinione pubblica usando ciò che emergeva dal lavoro dei magistrati è però arrivato dai diversi interrogatori dei personaggi chiave.
Anche Giorgio Carozzi, il membro del comitato portuale che ha dapprima osteggiato la concessione trentennale a Spinelli per poi cambiare idea quando la delibera è cambiata secondo la sua indicazione, ha fatto crollare molte fondamenta. Ancora ieri, sul Corriere della Sera, in un’intervista, ha ribadito perché non subì pressioni e i semplici motivi del suo cambio di opinione.
Già uscendo dal confronto con i pm, mentre comparivano resoconti secondo cui avrebbe ammesso di aver subito pressioni, lui ai colleghi giornalisti diceva:«È 50 anni che scrivo di porto, non sono sorpreso». Frase che sembra confermare come in porto non ci siano state cose così fuori dalla norma. Non solo, subito era intervenuto a smentire le ricostruzioni sulle sue dichiarazioni accusatorie, spiegando: «Dagli atti emergono ricostruzioni approssimative». Semplicemente ora, nella cronaca dell’inchiesta, compare anche l’altra versione”.