Cinquantuno anni di mancate manutenzioni e interventi di rinforzo nella pila 9 del Ponte Morandi, quella che crollando il 14 agosto 2018 causò la morte di 43 persone. E una riduzione del 98% delle spese da quando la concessione passa dal pubblico al privato.
In sintesi, una tragedia dovuta alle “manutenzioni in calare” e alla “negligenza”.
In meno di due anni si è realizzato ed è stato aperto al traffico il nuovo viadotto autostradale sul Polcevera. Mentre, soltanto per chiudere le indagini sul tragico crollo, ci sono voluti due anni e otto mesi.
Inoltre, prima dell’inizio del processo passeranno ancora diversi mesi (s’ipotizza almeno fino a gennaio 2022) e c’è il rischio delle prescrizioni che, considerati i tempi lunghi della Giustizia italiana, non è affatto da sottovalutare.
A 2 anni e 8 mesi dal crollo indagini chiuse. Per il processo c’è ancora da attendere
Le accuse sono di crollo colposo, attentato alla sicurezza dei trasporti, omicidio colposo e omicidio stradale colposo plurimo, rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omissione di atti d’ufficio, falso.
Tra le persone coinvolte nell’indagine dei pm genovesi risultano gli ex vertici di Aspi, l’ex ad Giovanni Castellucci e i numeri due e tre Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli, ex vertici e tecnici della controllata Spea, incaricata delle manutenzioni, ex e attuali dirigenti del Mit e del Provveditorato delle Opere pubbliche.
In questi anni sono stati portati avanti due incidenti probatori, uno sullo stato del viadotto al momento del crollo e l’altro sulle cause del collasso, decine di interrogatori, sequestri di una mole infinita di carte da parte degli investigatori del primo gruppo della Guardia di Finanza.
Ed eccole le accuse messe nero su bianco dalla procura.
La società Autostrade, secondo la pubblica accusa, ha risparmiato sulle manutenzioni per distribuire ai soci gli utili.
Una situazione “non giustificabile dal momento che la società aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo (utili compresi tra 220 e 528 milioni di euro circa), e che, tra il 2006 e il 2017, l’ammontare degli utili conseguiti è variato tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni di euro circa, utili distribuiti agli azionisti in una percentuale media attorno all’80%, e sino al 100%”.
I magistrati ripercorrono la vita e la lenta agonia del viadotto. Già nel 1990 e nel 1991 Autostrade Spa sapeva che nella pila 9 vi erano “due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro”.
Nel 2013 la società aveva poi inseritoe per il Ponte Morandi la speciale dicitura di “rischio crollo per ritardati interventi di manutenzione”. Dicitura, che aveva fatto, sempre secondo al ricostruzione dei pm, aumentare il massimale assicurativo da 100 a 300 milioni di euro, ma che poi era sparita nel 2017, sostituita con la frase “rischio perdita di stabilità” quando era stato presentato il progetto di retrofitting, il lavoro di rinforzo delle pile 9 e 10 mai partito.
Fino al 2008, si legge ancora nelle carte della procura genovese “nessun sistema di monitoraggio strumentale era mai stato installato sul viadotto. Dal 2008 era diventato operativo un (modesto e inidoneo) sistema di monitoraggio statico, limitato al solo impalcato compreso tra i sistemi bilanciati”.
A maggio 2016 il sistema di monitoraggio aveva evidenziato “movimenti anomali e inattesi dell’impalcato, che avrebbero imposto immediati approfondimenti sulle condizioni della struttura allo scopo di individuarne le cause, ma che venivano totalmente ignorati da Aspi e Spea”.
Dure critiche dei pm genovesi anche alle modalità di svolgimento dei controlli: “La pila 9 veniva osservata da lontano, con binocoli, di notte. Vista da vicino solo nel 2015. Controlli basati su manuali approvati da Aspi e “totalmente inadeguati”.