Anni fa un romanzo coraggioso diventava un film, ora quel film su uno spaccato sociale straordinario e dolente arriva sul palcoscenico.
Una storia difficile da rappresentare, talvolta difficile persino da guardare con obiettività, senza moti interni di ribellione, duretta dunque da accettare.
Perchè quel piccolo borghese ed i personaggi che lo circondano noi li conosciamo bene, sono nel nostro amico, nel vicino di casa, nella nostra cara zia, nel suadente collega di lavoro, dentro di noi insomma.
Mentre gli attori si muovono sulla scena noi riusciamo quasi ad indovinarne, ad anticiparne le battute: cercando di sorridere.
Chi non conosce un genitore, magari stato giovane in tempo di guerra o poco dopo, in tempi di privazioni, che non abbia detto almeno una volta “pensa al posto sicuro, pochi maledetti e subito, poi a metterli in banca per comprarti una casa (che è tutto), pensa a te e non a noi” ecc. ecc.
Chi non ricorda una cara ed affettuosa parente che sgranava il rosario e intanto gettava sale negli angoli della casa per propiziare la buona sorte?
Genitori che hanno sofferto con noi mentre studiavamo (magari di notte per recuperare), nascosti tra il pubblico il giorno della laurea, oranti mentre affrontavamo concorsi o colloqui, raccomandandoci di “mangiare” quando ci si sbrigava per non fare tardi sul lavoro.
Personaggi che abbiamo amato per quelli che erano, per la loro vicinanza (che ci faceva accettare anche qualche piccineria incomprensibile a noi, che “avevamo studiato”), per la loro palpabile sofferenza nel seguire le nostre vicende, genitori tampinati dalle necessità di sopravvivenza, che non avevano avuto il tempo di meditare su testi di psicologia dell’età evolutiva e dunque ci seguivano come sapevano fare…
Già, è proprio la sofferenza ansiosa per un figlio poco sveglio e mammone, ma non bamboccione, che emana da questo personaggio di padre, neppure troppo caricato, che alla fine ce lo fa amare nonostante la sua piccolezza, che sentiamo farci da monito e da specchio.
Gli perdoniamo le blandizie ad un capo volgare e fannullone, i riti massonici ridicoli ai quali si sottopone, la mancanza di fiducia verso gli esecutori preposti a quella giustizia in cui non ripone fiducia, una volta capito che il commissario non lo riconosce come “fratello” di una setta che tutto dà e tutto pretende.
E archiviamo come un colpo di follia la feroce, solitaria giustizia di cui si fa carico.
Si riconosce allo spettacolo il raro coraggio di aver rimarcato aspetti conosciuti e spesso sottovalutati o sottaciuti, per convenienza o per timore, del sottobosco del potere pubblico e privato che pilota le vicende legate al lavoro e alla carriera di occupati e non. Tutto ciò a scapito del merito.
L’allestimento scenico raccoglie nel medesimo spazio gli ambienti interni ed esterni in cui gli attori si muovono, che sono via via illuminati nel corso della rappresentazione: ciò basta ad anticipare e trasmettere con immediatezza l’idea della ristrettezza fisica e psichica in cui si muovono i protagonisti.
Massimo Dapporto aderisce perfettamente ad un personaggio che pare nato per lui, attraverso una recitazione dolente e concisa.
Del tutto all’altezza il cast che lo attornia, con sfumature degne di una moderna tragedia greca.
Un borghese piccolo piccolo resta al Teatro della Corte fino a domenica 23 dicembre.
Elisa Prato